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L’IS (ISIS), purtroppo, non è morto

Tra il 29 e il 30 agosto scorso sia in Siria che in Iraq ci sono state operazioni militari che hanno tenuto impegnate le truppe statunitensi contro i combattenti dell’IS. Il 29 agosto sono stati uccisi quindici miliziani dell’IS mentre il giorno successivo l’organizzazione ha attaccato con dei razzi la base statunitense di Koniko, al nord di Deir Ezzor, dove ci sono giacimenti di gas. Successivamente sono iniziati degli scontri a fuoco in Iraq, nella parte occidentale e desertica del Paese, dove l’IS opera. Sette soldati statunitensi sono stati colpiti e due hanno perso la vita. 

Ma l’IS non era morto? Purtroppo no, l’IS è vivo. L’IS (Stato islamico) ha preso vita il 29 giugno del 2014 mentre Abu Bakr Al Baghdadi proclamava dalla città conquistata di Mosul, in Iraq, la nascita del Califfato. Raqqa, situata in Siria, ne diventava la capitale.

L’IS ha sostituito l’ISIS (Stato islamico dell’Iraq e del Levante, noto anche come ISIL e Daesh), il quale aveva iniziato a conquistare territori in Siria e Iraq sin dalla sua costituzione nel 2013. Nel momento di sua massima espansione lo Stato Islamico era arrivato ad avere sotto il suo controllo 100.000 km2 tra Siria e Iraq, con undici milioni di residenti e un bilancio statale che si ipotizza fosse intorno ai due miliardi di dollari all’anno.

Tra il 2017 e il 2019 aveva subito pesantissime sconfitte che l’avevano costretto a battere ritirata da quasi tutti i territori conquistati. Nell’opinione generale era stato definitivamente annientato. In realtà l’IS non era sparito del tutto e oggi dimostra di esistere ancora. Dall’inizio di quest’anno, nel tentativo di capire se rappresenti una minaccia in Medio Oriente e nel mondo, sono apparse diverse analisi che riguardano la sua attuale forza.

Lo scorso aprile, la direttrice del National Counterterrorism Center degli Stati Uniti, Christine Abizaid, durante un’intervista al programma In the Room with Peter Berger, ha dichiarato che “Al-Qaeda e l’ISIS stanno entrambi lottando in molti modi per raggiungere una capacità importante che possa essere rilevante per gli Stati Uniti”.

Secondo un’analisi fatta da Omar Dhabian, ex funzionario dell’intelligence statunitense e ricercatore sui temi dell’estremismo e dell’antiterrorismo, apparsa il 4 aprile su The Washington Institute, oggi l’IS si è strutturata in modo diverso rispetto a come lo conoscevamo. Dopo la perdita dei territori e il duro colpo inferto dalla Coalizione internazionale, è passato da una struttura centralizzata a una basata sul lavoro di cellule disperse su differenti territori.

Nei grafici presenti nella ricerca viene mostrata la capillarità dell’organizzazione che si trova in Siria, Africa Occidentale, Sahel, Pakistan, Bangladesh, Mozambico, Asia orientale, Somalia, Centrafrica, Afghanistan e Iraq. In Iraq le sue cellule sono presenti in diversi governatorati, a partire dalla cintura di Baghdad per arrivare ai governatorati di Anbar, Diyala e Salah al-Din.

Attualmente si tratta di gruppi di piccole dimensioni che si muovono e addestrano in aree desertiche, ma il timore che possano allargarsi esiste e gli Stati Uniti ritengono che la richiesta del governo iracheno alla Coalizione internazionale guidata dagli USA, nata per combattere l’IS, che prevede il ritiro totale dall’Iraq, possa agevolare la sua ripresa.

In realtà la Casa Bianca non teme solo questa possibilità ma è anche preoccupata che una sua smobilitazione spalanchi le porte alla Turchia, che lavora con successo alla creazione di una solida collaborazione con l’Iraq, e soprattutto all’Iran, che ha le sue aree di influenza attraverso le milizie Hashd Al-Shaabi.   

La crescita dell’IS in Iraq è ipotizzabile alla luce del malumore che ancora una volta regna tra la popolazione sunnita, che ricorda le ragioni per le quali era nato e si era diffuso rapidamente a macchia d’olio. Sono principalmente le famiglie che vivono nelle aree desertiche ad essere più facilmente attratte dall’organizzazione, poiché le loro condizioni di vita sono più dure per la carenza di servizi e lavoro.  

I dati sul numero dei combattenti dell’IS variano dai duemilacinquecento ai cinquemila uomini, di cui circa cinquecento o seicento si troverebbero nel deserto siriano, diventato l’hub logistico e delle operazioni. 

In realtà l’IS può contare anche su circa novemila jihadisti che si trovano sotto la custodia delle SDF (Forze Democratiche Siriane). Queste continuano a far presente alla Comunità internazionale la necessità che provveda a trovare una soluzione per questi prigionieri perché le loro forze sono in difficoltà. L’IS infatti ha già condotto operazioni militari volte a liberare i propri affiliati rinchiusi nella prigione di Al-Sinaa, controllata dalle SDF. Fino ad ora non è arrivato nessun segnale in risposta a queste preoccupazioni. Forse l’accresciuta serie di attacchi, che nel 2024 ha fatto segnare un record da quando, nel 2019, l’IS ha dovuto rassegnarsi alla perdita dei territori anche siriani, desterà l’interesse di qualcuno.

Un altro bacino di potenziali nuovi jihadisti si trova nei due campi profughi di Al-Hol e Al-Roj, in Siria, dove vivono circa quarantaquattromila persone, sotto l’amministrazione dell’AANES (Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est) e il controllo delle SDF. Questi luoghi sono incubatori di nuovi combattenti perché le mogli dei miliziani, fedeli alle regole dello Stato islamico, crescono i figli nel loro rispetto.

L’AANES e le SDF hanno lanciato l’allarme, chiedendo che vengano rimpatriati i foreign fighters, alleggerendo così la pressione sui due campi. I Paesi da cui questi provengono pongono degli ostacoli, preoccupati anche loro di riavere concittadini che sono miliziani dell’IS. Nemmeno l’Iraq facilita il rientro dei combattenti di origine irachena e la situazione diventa potenzialmente pericolosa e potrebbe sfuggire dal controllo.

Le SDF si trovano in una condizione estremamente delicata perché da un lato svolgono il lavoro in chiave anti-IS per la Coalizione internazionale e dall’altro devono difendersi dai continui attacchi dell’IS, che le ha prese di mira, e da quelli della Turchia. Ankara le considera un’appendice del PKK e le aggredisce senza tregua. Queste però sono alleate degli USA contro l’IS ma anche contro Bashar Al-Assad, presidente della Siria, con cui Erdogan sta tentando una manovra di riavvicinamento.

Al-Assad è alleato di Putin e si sa, tra i due e Washington le relazioni sono a dir poco tese. La Russia è fortemente impegnata sul fronte ucraino e, nell’immediato, in cima alla sua agenda militare probabilmente non c’è l’apprensione per la potenziale minaccia che un’espansione dell’IS potrebbe comportare.

Nonostante l’IS dimostri di avere mantenuto una capacità organizzativa, gli attori regionali e non che esercitano il proprio potere e la propria influenza tanto in Siria come in Iraq, sotto il peso dei loro interessi e delle loro priorità, rischiano di farsi cogliere impreparati nel caso in cui l’organizzazione riuscisse davvero a ripetere la rapida crescita e avanzata del 2014.

Per il momento gli analisti, senza lanciare allarmismi, sollecitano tutti a tenere le antenne dritte per intercettare eventuali segnali che inducano a pensare che la forza dell’IS abbia raggiunto livelli di allerta. Certo è che dal non sentirne più parlare si è passati a leggere quasi quotidianamente notizie che ci riportano di attacchi da o contro l’IS. E’ bene monitorare.

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1 Commento


  • Andrea Vannini

    l’ isis é una mostruosa creatura degli usa. non gli usa ma la Russia e la Siria hanno sconfitto lo stato islamico. la presenza illegale usa in Siria e Iraq non é per combattere l’ isis ma per conservare il dominio in Asia occidentale e rubare grano e petrolio mediante i mercenari curdi delle fds.

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