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Media ed elezioni Usa, lo specchio deformante

Riflettere sull’approccio che i mezzi di comunicazione di massa hanno su un fatto politico è importante per comprendere come l’oggetto della trattazione mediatica viene rappresentato, e lo scarto tra realtà e rappresentazione che ci viene fornita.

Ci aiuta a capire perché veniamo costretti a concentrare l’attenzione su alcuni aspetti, mentre molti altri vengono ignorati e quindi rimossi all’attenzione pubblica.

Nel caso di un evento per certi versi “epocale”, come le prossime elezioni per il presidente degli Stati Uniti, la cosa è piuttosto rilevante considerato che i media nostrani ripropongono senza nessun filtro critico il modo di fare informazione – si fa per dire… – del giornalismo politico statunitense, che soggiace a logiche piuttosto deleterie.

Si tratta infatti di un giornalismo tutto teso a “battere” (ossia pubblicare) per primo una qualsiasi notizia, anche abbastanza insignificante, che riguarda spesso un aspetto accessorio, dando vita ad un flusso di informazione che invecchia rapidamente, nella logica dell'”obsolescenza programmata” che domina nei corporate media.

Il contributo che abbiamo qui tradotto la definisce quasi ossessivamente come una logica da “corsa de cavalli”, di fatto la cronaca di un duello equestre che – aggiungiamo noi – appiattisce e annulla tutto ciò che giustifica e spiega la sfida. Ovvero lo scontro/allineamento dei vari gruppi di interesse che compongono la parte dominante della borghesia nord-americana, quali porzioni di classe tende ad intercettare un presidente piuttosto che un altro, quali differenze rispetto alle priorità scelte nella azione politica.

Quello che ci raccontano i media, anche rispetto alle elezioni nord-americane, diventa così un eterno presente senza storia, come se ci fossero due più o meno abili comunicatori che devono strappare il maggior “gradimento” possibile, senza mai delineare il contesto di profondi cambiamenti del mondo in cui viviamo, il rapporto di continuità/rottura con le culture politiche dei differenti partiti di riferimento, la psicologia di massa di una società in profonda crisi che vede messa in discussione la propria egemonia, e quindi il proprio ruolo, nel mondo.

Un’informazione che non è in grado di stabilire, o non vuole, una gerarchia tra fatti principali, secondari e accessori.

Insomma, paradossalmente degli Stati Uniti sappiamo poco o niente, nonostante l’attenzione quasi morbosa sui mille particolari insignificanti della campagna elettorale.

Per questo abbiamo tradotto questo testo che ha il pregio di mostrarci come, dagli Anni Sessanta in avanti, sia stato “costruito” il modo di fare – cioè non fare – giornalismo politico sulla campagna elettorale presidenziale e che ha portato ad una sempre minore coscienza critica delle opzioni in campo.

Naturalmente la comunicazione politica, nel senso della comunicazione dei politici, è stata influenzata dal modus operandi dei media e dalle trasformazioni tecnologiche, trasformando il modo stesso di fare politica in funzione dei media.

Per parafrasare Frank Zappa, la politica statunitense si conferma la “sezione intrattenimento dell’apparato militare degli USA“.

Buona lettura

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Negli ultimi anni, quando è diventato sempre più probabile che Donald Trump organizzasse una terza campagna per la Casa Bianca, i principali critici della stampa e gli altri media hanno giurato che questa volta doveva essere diverso. La stampa non poteva fallire ancora una volta nella sua copertura di Trump.

Questa volta deve indagare in modo aggressivo su Trump e concentrarsi sulla minaccia che egli rappresenta per la democrazia. Secondo il professore di giornalismo della New York University, Jay Rosen, la posta in gioco in queste elezioni per la nazione, e non solo le probabilità di vittoria della campagna, dovrebbe essere al centro della copertura giornalistica.

Ma il cambiamento non è avvenuto. Al contrario, la stampa ha raddoppiato la copertura mantenendo lo stile di una corsa equestre (horse-race nel testo, NdT), dimostrandosi incapace di modificare la sua tradizionale formula di copertura delle campagne elettorali.

Distratta dai momenti drammatici della campagna, evidenziati dal tentato omicidio di Trump e dalla decisione del presidente Joe Biden di ritirarsi dalla corsa, la copertura quotidiana e processuale della campagna rimane fondamentale. La cronaca stile corse dei cavalli è tornata a pieno regime, e la minaccia che Trump rappresenta per la democrazia è ora un ripensamento.

L’appello a riformare la copertura su Trump era emerso a causa della litania di fallimenti della copertura passata. Quando Trump si è candidato per la prima volta alla presidenza, nel 2016, la stampa è stata colta alla sprovvista, confusa su come raccontare un demagogo razzista. I giornalisti hanno cercato di trattare Trump come tutti gli altri candidati che avevano trattato in passato, cercando di inserire la sua follia nelle loro formule tradizionali di copertura. Ma questo sforzo disastroso ha portato a recriminazioni per la copertura inadeguata, che non è riuscita a cogliere la sua cattiveria.

Nel 2020, la stampa è stata colta di sorpresa ancora una volta, questa volta dopo le elezioni, quando Trump ha rifiutato di accettare la sconfitta e ha cercato di organizzare un colpo di stato per rimanere al potere. Durante la campagna elettorale, la stampa aveva ampiamente ignorato le prove sempre più evidenti che Trump stava pianificando il rifiuto dei risultati delle elezioni (se negativi) e in seguito non aveva seguito adeguatamente i segnali di allarme di un’insurrezione, anche se tra gli estremisti di destra se ne parlava apertamente.

Infine, dopo il 6 gennaio 2021, sembrava certo che la stampa nazionale fosse pronta a trattare Trump come un pericoloso demagogo, piuttosto che come un normale politico americano. Il fatto che Trump sia stato condannato per un reato all’inizio della campagna elettorale del 2024 ha fatto sì che i cambiamenti nella copertura sembrassero inevitabili.

Ma la stampa sembra soffrire di amnesia. È come se i giornalisti avessero dimenticato che Trump è stato sottoposto a impeachment due volte, incriminato quattro volte e già condannato una volta. Quest’anno dovrebbe affrontare altri tre processi penali nel bel mezzo della campagna elettorale, ma finora è stato salvato da questo destino da una serie di sentenze discutibilmente di parte di giudici da lui nominati.

Tutti i crimini del Presidente

Eppure l’insurrezione, le incriminazioni, le condanne penali, gli impeachment tendono a ricevere poco più che brevi accenni nei servizi sulla campagna di Trump oggi. Le storie stile corse di cavalli, dettate dai sondaggi, dominano ora, sopraffacendo gli sparuti tentativi della stampa di chiedere conto a Trump.

Solo negli ultimi giorni, la copertura mediatica è stata sommersa da storie interminabili sull’appoggio a Trump da parte del candidato indipendente e teorico della cospirazione Robert F. Kennedy Jr.. e sui tentennamenti di Trump su come confrontarsi in tv, su ABC News, con la candidata democratica alle presidenziali Kamala Harris.

Questo tipo di storie e altre curiosità sono presenti nei cicli infiniti di storie in pillole presenti 24 ore su 24 sulle homepage del New York Times, del Washington Post e di altre testate.

Gli avvertimenti sul pericolo che Trump rappresenta per la democrazia americana non sono invece presenti nelle notizie quotidiane sulla campagna elettorale. Sarà interessante osservare nei prossimi giorni come la stampa politica affronterà la decisione del consigliere speciale Jack Smith – che verrà presa martedì –  di emettere una nuova accusa penale contro Trump in relazione al 6 gennaio, con accuse riviste in modo che il caso possa sopravvivere anche dopo la recente sentenza della Corte Suprema sull’immunità presidenziale.

Il fatto che Trump sia sfuggito per la terza volta a un esame approfondito da parte della stampa può essere attribuito in parte alle profonde tendenze storiche, tecnologiche e finanziarie che hanno attraversato l’industria dell’informazione.

La moderna copertura politica americana ha origine nella campagna presidenziale del 1960 tra il senatore democratico John F. Kennedy e il vicepresidente repubblicano Richard Nixon. La corsa del 1960 ha modificato radicalmente il modo in cui i giornalisti pensavano e praticavano la copertura delle campagne elettorali.

The Making of the President 1960, un libro innovativo sulla corsa Kennedy-Nixon scritto da Theodore White, ha avuto un impatto duraturo sul modo in cui i giornalisti coprono le campagne presidenziali. Il libro di White fu un bestseller e vinse il Premio Pulitzer perché offriva qualcosa di nuovo: White scrisse della campagna presidenziale come una narrazione di un anno, un arco avventuroso che portava il lettore dalle nevi del New Hampshire al giorno di novembre in cui la tenuta dei Kennedy a Cape Cod si trasformò improvvisamente nella casa del presidente eletto.

White creò il moderno manuale di campagna elettorale e, con esso, un’inquadratura narrativa che divenne il modello per generazioni di reporter politici. Grazie al libro di White, la campagna presidenziale, un evento quadriennale, divenne la storia; l’esame delle politiche e dei problemi, nonché l’indagine su potenziali scandali, divennero secondari.

Nel 1960 anche la televisione divenne maggiorenne come arma politica e i dibattiti Kennedy-Nixon, trasmessi a livello nazionale, cambiarono il rapporto tra i candidati e la stampa. Le reti televisive divennero più potenti, a scapito dei giornali e dei settimanali. Le campagne presidenziali erano ora dominate dalle immagini televisive e i giornalisti, a loro volta, concentravano la loro copertura sull’immagine e sul simbolismo delle campagne, piuttosto che sulla sostanza. Il candidato che si presentava meglio in televisione diventava la storia.

Questa trasformazione è stata catturata in The Selling of the President 1968, un altro libro fondamentale che documenta il modo in cui i dirigenti della pubblicità e del marketing di Madison Avenue sono stati in grado di rifare e lucidare l’immagine di Nixon, spingendolo alla vittoria dopo essere stato battuto dal più telegenico Kennedy nel 1960.

Il libro, scritto da Joe McGinniss, fu il primo esame cinico di come la televisione e la pubblicità stavano cambiando le campagne elettorali, e convinse i giornalisti politici che avrebbero dovuto concentrare gran parte dei loro servizi sui guru del marketing dietro i candidati. Questo ha spinto ancora più decisamente i loro reportage sulla campagna elettorale verso lo stile “corsa dei cavalli”.

Nessun libro ha però avuto un’influenza maggiore di What It Takes: The Way to the White House” – l’iconico libro di Richard Ben Cramer sulla campagna presidenziale del 1988.  – sull’attuale generazione di reporter addetti alle campagne elettorali.

Dalla sua pubblicazione, nel 1992, What It Takesha influenzato la copertura delle campagne presidenziali  in modi che quasi certamente Cramer non avrebbe mai voluto. Il libro fornisce profili profondamente studiati dei principali candidati del 1988, concludendo che George Herbert Walker Bush era il più determinato a fare di tutto sulla strada verso la vittoria.

Questo ha dato al libro un’eredità non voluta, convincendo i giornalisti a concentrarsi sulla disponibilità dei candidati a fare qualsiasi cosa, compreso il sacrificio della propria integrità morale, pur di vincere. Questo ha portato a uno stile di copertura delle campagne elettorali che minimizza i difetti etici e morali, a meno che non ostacolino la vittoria elettorale. Molto tempo dopo la morte di Cramer nel 2013, What It Takesha inavvertitamente fornito la formulazione narrativa che i giornalisti hanno usato per coprire Trump.

Anche i cambiamenti tecnologici hanno giocato un ruolo importante nel garantire che la copertura stile corsa dei cavalli rimanga dominante.

Negli anni ’80, la televisione è stata rivoluzionata dal passaggio dalla pellicola al video, il che ha permesso ai reporter di registrare più spesso e più rapidamente direttamente dal campo. Allo stesso tempo, la fondazione della CNN nel 1980 ha inaugurato l’era delle notizie via cavo, sfruttando appieno la nuova tecnologia satellitare commerciale e il passaggio dalla pellicola al video per riempire infinite ore di copertura quotidiana delle campagne elettorali.

La bocca spalancata del ciclo di notizie “h 24” ha portato a una costante fame di nuovi contenuti, il che significa che le storie minori del processo elettorale sono state trattate come grandi notizie, in un ciclo continuo.

Le notizie via cavo sono state seguite dall’ascesa di Internet e dei social media, che hanno portato a una richiesta ancora maggiore di notizie rapide e brevi dalla campagna elettorale.

Dopo la fondazione di Twitter, nel 2006, molti dei suoi primi e più accaniti utenti erano giornalisti politici, che lo usavano per seguire le campagne minuto per minuto. Nessuna decisione tattica di una campagna era troppo banale per non essere catalogata dai giornalisti nei loro feed di Twitter.

Queste tendenze sono confluite nella fondazione di Politico nel 2007; il suo modello di business è stato costruito intorno all’idea di coprire la politica in modo più rapido e breve rispetto al New York Times e al resto dei media tradizionali. Politico si è concentrato senza mezzi termini sulla copertura stile corsa dei cavalli e ben presto ha stabilito il format per la cronaca quotidiana delle campagne elettorali.

In breve tempo, gli ex allievi di Politico sono stati assunti da tutti i principali media e la copertura stile corsa dei cavalli di Politico è arrivata a dominare l’intero panorama del giornalismo politico.

Le brutali pressioni finanziarie che le testate giornalistiche devono affrontare oggi hanno avuto necessariamente un forte impatto anche sulla copertura politica.

La richiesta di maggiore traffico web ha costretto le testate giornalistiche a dare la priorità a notizie di rottura scritte rapidamente, che contribuiscono a generare attenzione ogni ora. Poche testate possono permettersi di lasciare ai giornalisti il tempo necessario per scavare a fondo. I servizi stile corsa dei cavalli – veloci e facili da scrivere o da trasmettere – sono perfetti per il panorama giornalistico odierno, caratterizzato da un potente deficit di attenzione.

Inoltre, in un momento di forte polarizzazione politica, la copertura stile corsa dei cavalli ha l’ulteriore vantaggio di aiutare le testate giornalistiche a proteggersi dalle critiche di essere troppo di parte (per il cronista è indifferente quale cavallo vinca, NdT).

L’ossessione per la corsa dei cavalli comporta però dei costi per le organizzazioni giornalistiche, costi che molti addetti ai lavori ancora non comprendono.

Questo stile di copertura è un giornalismo privo di sostanza che si limita a raccontare quale candidato è in ascesa e quale in discesa. Ciò significa che, oltre alla mancanza di giornalismo d’inchiesta e di responsabilità, mancano anche storie approfondite sulle politiche e sui problemi complessi.

I responsabili delle campagne elettorali approfittano della fissazione dei media per le corse dei cavalli quando ne traggono vantaggio. Ma sempre più spesso cercano di superare il rumore della corsa dei cavalli aggirando completamente la stampa per far arrivare i loro messaggi al pubblico. È una tendenza che minaccia di rendere irrilevante la stampa politica.

Trump è stato uno dei primi candidati ad abbracciare pienamente i nuovi modi a disposizione delle campagne per aggirare la stampa. Nel 2016, i giornalisti politici non erano preparati all’uso prolifico dei social media da parte di Trump, il che gli ha permesso di parlare direttamente ai suoi sostenitori e di influenzare la narrazione della campagna su base oraria. I giornalisti si sono trovati a scrivere storie quotidiane su ogni tweet di Trump, il che ha avuto l’effetto di permettere a Trump di dirottare  a suo favore tutta la copertura stile corsa dei cavalli.

La tendenza delle campagne a ignorare la stampa e la sua fissazione per la copertura horse-race ha raggiunto nuovi livelli alla Convention nazionale democratica delle scorse settimane, dove più di 200 influencer online sono stati accreditati dal Partito Democratico per pubblicare contenuti per i loro follower su TikTok, Instagram e altre piattaforme.

Questa mossa ha fatto arrabbiare alcuni esponenti della stampa politica tradizionale, ma i Democratici l’hanno vista come un modo per comunicare in modo più diretto con i giovani e con chi è stato respinto dalla copertura convenzionale della campagna elettorale.

Tuttavia, la stampa politica continua a non capire che la gestione delle campagne li sta aggirando, in parte a causa della loro ossessione per lo stile corsa dei cavalli. Non colgono il nesso.

E così la copertura horse-race  manterrà probabilmente la sua ferrea presa sul giornalismo politico: un accordo che lascia i candidati senza sfide, le questioni importanti senza domande e gli elettori non informati. È un accordo che Trump è ansioso di sfruttare.

* “The Intercept

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