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Il dinamismo di Erdogan

Erdogan è uscito malconcio dalle scorse elezioni politiche e amministrative eppure è in grado di far parlare di sé sulla scena internazionale, non per la batosta ricevuta, ma per il dinamismo che dimostra nel tessere la tela delle alleanze.

In questo incessante lavoro che tiene occupato il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, costretto a saltellare da un Paese all’altro per preparare il terreno per la successiva visita del Presidente turco, Erdogan dimostra tanto pragmatismo. 

La sua visione del ruolo della Turchia nella regione, la quale rappresenta la porta da aprire per entrare in Europa e in Medio Oriente, è di una potenza economica e militare in grado di determinare e influenzare gli scenari politici e economici. 

Dopo tensioni che si trascinano da oltre un decennio, sta tentando la normalizzazione dei rapporti con la Siria di Bashar al-Assad e con l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. Proprio quest’ultimo è volato in Turchia e il 4 settembre scorso ha discusso con la sua controparte alcuni dossier, già anticipati dalla visita di Erdogan in Egitto a febbraio. 

Al termine dell’incontro, il Presidente turco ha dichiarato che “con il comunicato congiunto il nostro obiettivo è di rafforzare ulteriormente la nostra collaborazione in più settori, da quello sanitario all’energia, al turismo, all’energia elettrica e al gas naturale. Siamo determinati nel voler incrementare il volume dei nostri affari a quindici miliardi di dollari”.

Gli ha fatto eco il Presidente egiziano dicendo che “abbiamo un obiettivo comune di aumentare il commercio tra i nostri Paesi. E’ anche chiaro che la collaborazione tra Turchia e Egitto è essenziale per risolvere le questioni regionali”. Il riferimento non può che essere principalmente rivolto a Gaza e alla questione palestinese, con le operazioni militari di Israele in espansione in Cisgiordania. 

Diverse sono le criticità da superare perché le divergenze sulla politica in Libia e nel Corno d’Africa esistono. Tuttavia sia la Turchia che l’Egitto stanno affrontando una crisi economica gigantesca e dunque la loro alleanza deve favorire il commercio tra di loro e tenere sotto controllo il malcontento popolare.

Erdogan però fa parlare di sé anche per la notizia circa la sua intenzione di portare la Turchia nei famosi BRICS+. In realtà da tempo se ne parla ma il 4 settembre un alto ufficiale russo ha dichiarato che Ankara avrebbe formalmente fatto richiesta di adesione. 

Brasile, Russia, India e Cina, nel 2009, hanno siglato un’alleanza per controbilanciare il potere economico e politico dell’Occidente, a guida statunitense, chiedendo che le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale venissero riformate per garantire un ordine mondiale più giusto.

Nel 2010 il Sudafrica si è unito al gruppo che da allora ha preso il nome di BRICS. Le economie di questi Paesi, definite emergenti, possono contare su abbondanti risorse naturali strategiche e da tempo ormai fanno registrare un PIL in costante crescita. Il loro obiettivo è la costruzione di un sistema finanziario e commerciale globale non basato sul dollaro. 

Dal 1 gennaio di quest’anno ne fanno parte anche gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Etiopia e l’Egitto, da qui BRICS+. Pendono inoltre le richieste di Malaysia e Azerbaijan e sembrerebbe che anche la Turchia sia adesso tra i candidati.

Entrare nei BRICS+ può rispondere a più esigenze: far parte dell’alleanza dei Paesi emergenti, destinata probabilmente a incidere sui cambiamenti economici e politici di medio e lungo periodo a livello mondiale; sfruttare la sua posizione geo-strategica per influenzare le decisioni; portare vantaggi economici alla Turchia che ha bisogno di uscire da una crisi economica che la attanaglia, con un tasso di inflazione da capogiro e quello di disoccupazione al 9,2%, con tendenza alla crescita. 

Erdogan è profondamente spazientito dall’attesa logorante che riguarda la sua richiesta di adesione all’Unione Europea, risalente al 2005. L’UE l’ha messo a decantare, sperando che decidesse di avviare un processo di democratizzazione all’interno del Paese. Giusta richiesta, sebbene faccia un po’ sorridere provenendo da un’Europa sempre meno democratica. C’è poi anche la questione irrisolta che la Turchia ha con Cipro, membro dell’UE.

Il capo di Ankara può essere accusato di politiche repressive, di non aver alcun interesse verso i valori democratici, di aver esasperato gli aspetti religiosi in Turchia, di doppia faccia, di favorire interessi familiari e personali attraverso molte delle decisioni politiche assunte e di tanto altro ancora ma purtroppo non può essere accusato di mancanza di una visione politica nazionale e internazionale.

Purtroppo, perché Erdogan non sa che farsene dei valori democratici né in casa né fuori casa. Certo, potrebbe controbattere chiedendo a chi, tra coloro che detengono il potere delle decisioni che influenzano il mondo, realmente interessino oggi i valori democratici. La domanda potrebbe generare un certo imbarazzo, non sapendo cosa rispondere.

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2 Commenti


  • Andrea Vannini

    i valori democratici?


  • Enea Bontempi

    Quando parliamo di “valori democratici”, noi ci riferiamo oggettivamente, anche se non ne siamo storicamente e filosoficamente consapevoli, a quella democrazia che nasce negli Stati Uniti d’America e viene esportata attraverso la guerra imperialistica. L’esportazione della democrazia, infatti, non è qualcosa di oggi, è una cosa che gli Stati Uniti hanno sempre fatto. Ad esempio, hanno esportato la democrazia in Europa attraverso la seconda guerra mondiale, riuscendo pienamente nel loro intento. Da quel momento in poi ci troviamo di fronte all’unica forma possibile di “democrazia”: quella che coincide, come vediamo chiaramente nell’anglosfera a cui l’intera Europa è stata assoggettata, con l'”american way of life”. La conseguenza che si trae da questo ragionamento è allora perentoria: la democrazia non è un valore. Di più, dai cosiddetti “valori democratici” il movimento di classe oggi non può attendersi nulla, se non subalternità e disidentificazione. Non a caso l’egemonia culturale esercitata dalle classi capitalistiche dominanti si esprime, attraverso i “valori democratici”, in due modi: quanti soldi hai? quanti voti hai? Queste due cose sono estremamente organiche tra loro e costituiscono, al termine di una lunga traiettoria storica, l’unico modello possibile di democrazia.

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