Quando infili un bastone in un nido di serpenti, tutto si mette in moto e molto difficilmente l’autore della mossa può tenere sotto controllo il caos che ne deriva.
Vediamo in questi giorni che la Siria. Conquistata in un batter d’occhio dal proxy turco Al Jolani, alla guida di una sezione mediorientale di Al Qaeda – formazione nutrita inizialmente da Usa e Arabia Saudita in funzione antisovietica –, il nuovo equilibrio di poteri a Damasco inizia a prender forma anche se crescono i conflitti all’interno del paese (gli alawiti, fuggito Assad, provano a resistere nelle loro storiche roccaforti, mentre cristiani provano a marcare la loro presenza e i curdi a mantenere i loro territori).
Con Israele che occupa a sud ben più del solo Golan e bombarda ogni deposito militare del disciolto esercito siriano, nel tentativo di ridurre al minimo le potenzialità di chiunque emerga nel prossimo futuro come nuovo padrone di ciò che resta della Siria.
Ovvio, in questo contesto, che Israele e gli Usa appaiano come i vincitori del risiko mediorientale.
C’è però un però. Non sono questi gli unici protagonisti di peso sulla pelle dei popoli palestinese, siriano e libanese. E il puzzle si complica parecchio guardando quel che accade al di fuori dei riflettori miopi dell’informazione occidentale.
Per esempio. Nel governo di Al Jolani ha inaspettatamente trovato posto anche una donna. E quando se ne accorgeranno i fanfalucchi della stampa mainstream probabilmente apprezzeranno la mossa, dipingendola come un furbo tentativo del nuovo potere di scrollarsi di dosso l’immagine del jihadista trinariciuto in stile talebano, che effettivamente gli calza come un pennello.
A guidare il ministero degli affari femminili è stata però chiamata Ayse Seyidoglu, una funzionaria di alto livello ad Ankara ma con doppia cittadinanza. Un modo non equivoco di far vedere chi è che ora comanda a Damasco.
Lo stesso Jolani, dopo un incontro con il capo del MIT (l’agenzia di intelligence turca), ha poi ospitato il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, già direttore del MIT.
Durante l’incontro, Jolani ha accompagnato Fidan in un giro per Damasco, visitando i luoghi principali e sorseggiando caffè insieme dalla cima del Monte Qasioun, con vista sulla capitale.
Al di là degli aspetti folkloristici (agli occhi di un occidentale), un omaggio a chi ha voluto e reso possibile il cambio di regime in Siria.
Secondo diversi rapporti la Turchia starebbe peraltro consolidando la propria presenza inviando consiglieri militari per addestrare il nuovo esercito siriano presso le accademie di Aleppo e Damasco (come scrive la testata turca ClashReport).
Inoltre, si moltiplicano le voci circa un possibile dispiegamento di un’unità dell’esercito turco a Homs per addestrare operatori della difesa aerea. E non ci sono molti soggetti esterni che stiano ancora bombardando la Siria..
Una conferma arriva sul piano strettamente politico. Bilal Erdogan, figlio del presidente turco, appare in un video in cui invita a una grande manifestazione pro-Palestina sul ponte di Galata a Istanbul per il 1° gennaio.
Nulla di nuovo, era accaduto anche lo scorso anno. E tutti gli osservatori, anche interni, attribuiscono la sconfitta di Erdogan alle ultime elezioni amministrative proprio allo scarso impegno concreto a favore della Palestina.
Ovvio, insomma, che ora cerchi di cavalcare la sensibilità dei musulmani su questo fronte, strumentalizzando cinicamente le sofferenze del popolo palestinese…
La differenza sta tutta nel nuovo slogan adottato per la manifestazione che sarà ancora una volta prevedibilmente enorme:
“Ieri Santa Sofia, oggi la Moschea degli Omayyadi (Damasco), domani Al-Aqsa (Gerusalemme).”
Questa frase, riportata anche su manifesti ufficiali dell’evento, segnala la crescente retorica nazionalista verso la “riconquista” di Gerusalemme.
Un’ambizione neo-ottomana che, per quanto propagandistica possa essere, non può lasciare sereno il governo genocida e suprematista di Tel Aviv. Ancora non ha finito di “eliminare” (linguaggio usato da Netanyahu) Hamas ed Hezbollah, ha appena aperto la “pratica” con lo Yemen, ha nel mirino il ben più corposo ed indigesto boccone iraniano… che già gli si presenta sui confini (che – unico stato al mondo – Israele non ha mai voluto né fissare né riconoscere) un altro e pesantissimo potenziale avversario.
Stiamo parlando di un nazionalismo militaresco e nostalgico, memore dell’”impero” che ancora all’inizio del Novecento comprendeva Siria, Iraq, la Palestina e quindi anche l’attuale Israele, l’Egitto, la Libia e l’Arabia, parte dell’Algeria, la Tunisia, i Balcani, ecc.
Altro che un Vecchio Testamento di 3.000 anni fa, di dubbia origine e molto elastica interpretazione…
Soprattutto stiamo parlando di un paese industrializzato (come lo è anche l’Iran, del resto), pesantemente armato e per di più anche membro della Nato. Il che pone parecchi problemi a tutti (Israele e Usa, per non dire dell’Europa polverizzata attuale), all’interno stesso dell’alleanza che stupidamente ancora immagina di poter comandare sul resto del mondo.
Con il crescente controllo turco in Siria tramite il proxy qaedista (che fin qui si è sempre guardato bene dall’infastidire in qualsiasi modo Tel Aviv), Israele potrebbe insomma trovarsi presto a fronteggiare una nuova pressione diretta ai suoi confini. Del resto è fatale che due nazionalismi votati ad allargare la propria area di controllo esclusivo si guardino in cagnesco quando arrivano a contatto…
Da qui in poi si aprono tutti gli scenari possibili. E’ plausibile infatti che la Turchia sia costretta o tentata di rafforzare i legami con Russia e Iran come contromisure. Come è possibile anche, al contrario, che gli Usa riescano ancora una volta ad agire come regolatori ex cathedra di tensioni ed interessi divergenti all’interno del “proprio campo di influenza”.
La Russia, dal canto suo, è invece già in procinto di firmare un ampio accordo di partenariato strategico con l’Iran il 17 gennaio, simile a quello recentemente stipulato con la Corea del Nord, e dopo averne firmato un altro più limitato proprio con Tehran.
La notizia è stata pubblicata da Newsweek, che vi vede un tentativo dei due paesi di “unire le forze” in risposta al loro – molto immaginario – “isolamento sulla scena mondiale.” In realtà, guardando un mappamondo, si vede l’esatto opposto, anche in termini di dimensioni delle popolazioni…
A fine ottobre, il Ministro degli Esteri russo Lavrov aveva dichiarato che l’accordo con l’Iran sarebbe stato pronto per la firma e avrebbe “formalizzato l’impegno delle parti a una stretta cooperazione in materia di difesa, e a un’interazione volta a promuovere la pace e la sicurezza regionale e globale.”
Il nuovo accordo bilaterale dovrebbe sostituire quello strategico ventennale firmato tra i due paesi nel 2001 e rinnovato nel 2020. Esso includerà promesse di cooperazione nei settori dell’energia, della produzione, dei trasporti e dell’agricoltura.
Il Presidente Pezeshkian si recherà personalmente a Mosca per firmarlo nella data prevista.
Si comprende quindi anche la fretta con cui Israele passa da un fronte all’altro, senza un attimo di respiro e senza un retroterra adeguato. Sta infatti provando ad indebolire l’Iran il più possibile, anche colpendo brutalmente lo Yemen negli ultimi giorni, nella speranza che Trump dia il suo benestare per un attacco alle strutture nucleari iraniane dopo il suo insediamento.
Una volta che l’alleanza tra Tehran e Mosca avesse assunto caratteristiche in qualche misura simili all’art. 5 della Nato, infatti, una mossa del genere sarebbe molto più rischiosa (Israele, del resto, non potrebbe invocare quell’articolo, non facendone ufficialmente parte).
Tanto più se un membro della Nato con il peso politico-militare di Ankara fosse interessato a lasciare Tel Aviv in mezzo al caos che essa stessa ha creato.
Il 2025 non sarà un buon anno, dicevamo
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