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La politica del tradimento: Jenin, Abbas e il paesaggio infernale di Gaza 

La campagna mortale dell’ANP contro la resistenza a Jenin rompe i tabù di lunga data contro lo spargimento di sangue palestinese. Sta anche sollevando profondi interrogativi sul futuro della resistenza di fronte al genocidio di Gaza. 

Da più di tre settimane, l’Autorità Nazionale Palestinese conduce “l’operazione per proteggere la nazione”, una campagna su larga scala per smantellare la resistenza palestinese organizzata nella parte settentrionale della Cisgiordania. 

L’operazione mira a disarmare le fazioni, composte principalmente da giovani nei campi profughi, che si sono radicate a Jenin e nelle sue zone rurali negli ultimi due anni. A oggi, l’operazione ha causato la morte di tre palestinesi per mano delle forze di sicurezza palestinesi. Sono stati uccisi anche due ufficiali dell’ANP. 

Durante l’operazione, un video ampiamente diffuso ha ripreso un giovane combattente palestinese a Jenin che si confrontava con i membri delle Forze di sicurezza palestinesi (FSP), attimi pesanti delle tensioni irrisolte che frantumano la società palestinese. 

La sua voce, ferma, afflitta e accusatrice, è l’unico suono che sentiamo. Essa taglia la scena sia come un’arma sia come un lamento, accusando le FSP di tradimento e di cordoglio per la disintegrazione di uno scopo nazionale condiviso. 

Il giovane svergogna le FSP, evocando il ricordo dei soldati israeliani caduti o feriti sulla stessa strada che le Forze ora usano per affermare il controllo sul campo profughi di Jenin, un bruciante promemoria delle battaglie combattute dalla resistenza contro un nemico potente. 

Una voce maschile che chiede alle FSP di ritrovare la virilità rifiutandosi di combattere la resistenza e di unirsi a essa. Parole irruenti colme di dolore e urgenza, che al contempo accusano le FSP di aver perduto la loro virilità e implorano di non costringere la resistenza a usare una forza letale. 

Con un misto di furia e moderazione, egli indica la potenza della resistenza palestinese in Jenin: arrangiati ordigni esplosivi in agguato che non detonano, una calcolata moderazione per trasmettere forza e scopo, ma anche la scelta di non colpire le FSP. 

Alla fine del video, la sua voce si alza in un crescendo angosciato: “Ya Ḥayif”, grida, un lamento che riverbera il peso del tradimento e della perdita, pronunciato in momenti di profonda delusione e incredulità. 

La frase Ya Hayif è usata colloquialmente in tutto il Bilad al-Sham (NdT: Balad al-Sham indica la Grande Siria, da non confondere con la Siria odierna) per esprimere profondo dolore, rammarico o delusione di fronte a torti percepiti. 

Nell’ultimo decennio, vari episodi hanno messo a nudo le profonde fratture all’interno della società palestinese, ma pochi hanno avuto una risonanza così profonda come la voce di Aseel Suliman. 

Il 20 novembre 2020, in una puntata di due minuti, il conduttore radiofonico di una radio locale criticò ferocemente la decisione dell’ANP di riprendere il coordinamento della sicurezza con Israele, una mossa che il ministro del coordinamento civile, Hussein al-Sheikh, aveva inopportunamente salutato come una “vittoria per la Palestina”. 

La voce di Suliman, tremante di indignazione, ha canalizzato la frustrazione di un pubblico a lungo disilluso dai tentativi dell’ANP di ridefinire la sottomissione come trionfo. 

Le sue parole hanno smantellato la vuota retorica, troncando strati di atteggiamenti politici con cruda chiarezza. Alla fine della trasmissione, ha mandato in onda la poesia di Amal Dunqul, il poeta egiziano cantore del cuore spezzato e della sfida. 

Dunqul nella sua poesia “Non conciliare” evoca lo spettro di un arabo svuotato dalla vergogna, una figura che tradisce l’innocenza dei ricordi d’infanzia e che, dopo anni di lotta, sceglie la via della normalizzazione con il nemico: una sottomissione tranquilla mascherata da pragmatismo. 

Il mio sangue si trasformerebbe in acqua nei tuoi occhi?” scrive, l’accusa risuona forte e intima. “Dimenticheresti i miei vestiti, bagnati di sangue? Ti copriresti tu stesso, sopra il mio sangue, con i vestiti d’argento e d’oro?” 

Le sue parole sono implacabili, un’autopsia poetica del tradimento, che esplora le difficili intersezioni tra memoria, dignità e complicità. Sebbene la poesia di Dunqul sia stata scritta come un inno contro lo spettro incombente della pace egiziana con Israele nel 1976, da tempo ha superato il suo contesto immediato. 

Lamento e vergogna, echeggiando nel grido angosciato di “Ya Ḥayif” nelle battaglie di Jenin oggi o nella critica accanita di Aseel Suliman alle vuote dichiarazioni di vittoria dell’élite dominante della Cisgiordania, sono saturi di emozioni stratificate e di politica.

Essi incarnano non solo l’indignazione, ma un più profondo computo della perdita, il tradimento e una brama collettiva di responsabilità. 

È in questi spazi di crudo confronto che emergono figure, come Nizar Banat, che sfoggiano una penetrante analisi politica e prodezze retoriche nel lanciare feroci invettive contro l’Autorità palestinese. 

Sono momenti di introspezione collettiva, colmi di angoscia nel chiedere: “Cosa siamo diventati?” e il difficile riconoscimento di un corpo nazionale frammentato, l’incapacità di reagire e il complicato posto della resistenza nel paesaggio contemporaneo della Palestina. 

Da un lato, questi lamenti contengono una speranza persistente: la convinzione, per quanto fragile, che gli agenti delle FSP siano redimibili, che possano ancora vergognarsi riconoscendo la complicità, che possano essere cambiati. 

Dall’altro lato, sottolineano le scelte difficilissime che i combattenti palestinesi devono affrontare a Jenin oltre al duro promemoria che resistere all’ANP significa, a volte, resistere ai propri parenti. 

Reagire significa confrontarsi con se stessi e questo confronto mette a nudo la capacità insidiosa del regime dell’ANP di reclutare i corpi dei giovani come strumenti della sua volontà. Come un palestinese di Jenin ha osservato, “Si appropriano indebitamente della nostra stessa carne”. 

Questa è una politica di intimo tradimento, in cui le linee di battaglia si confondono e i combattenti emergono dalle stesse strade, parlano lo stesso dialetto, ma combattono una guerra per un futuro che non potrebbe essere più diverso. 

La forza delle FSP non risiede nella sua capacità operativa o nell’addestramento americano impartito in Giordania e a Gerico. Il suo vero potere sta nella lenta e metodica erosione nella fede e nella fiducia nella resistenza, un processo tanto deliberato quanto implacabile.

Inviando giovani palestinesi a scontrarsi contro giovani palestinesi, le FSP orchestrano un tragico teatro di sangue palestinese versato in battaglie dove non ci sono vincitori. 

Ciò che si svolge non è semplicemente uno scontro di armi, ma un duello di resistenza, una gara a chi cederà per primo, a chi farà un passo indietro e si rifiuterà di andare oltre. A chi dirà: “Il sangue palestinese non vale la pena”. 

Per molti palestinesi, lo spettro di una lotta intestina su larga scala è troppo devastante da giustificare, per quanto nobile sia la causa,per quanto urgente sia la necessità o per quanto ciniche possano essere le motivazioni. 

Tuttavia, la capacità dell’Autorità palestinese di comandare dei giovani in battaglia – e che questi giovani si confrontino volentieri con i loro coetanei – rivela il potere inquietante della cooperazione in questo difficile frangente. 

A Jenin, molti dei bersagli della campagna dell’ANP sono figli o parenti di membri della sicurezza delle FSP, essi stessi prodotti dello stesso tessuto sociale. 

Molti provengono dalle stesse comunità che si identificano con Fatah, il partito al potere dell’ANP, confondendo i confini tra lealtà, resistenza e tradimento in modi che rendono il confronto non solo politico ma profondamente personale. 

L’inflessibile campagna di Israele contro Gaza, la trasformazione della Striscia in una rovina apocalittica, non è solo un’operazione militare: è una performance, un deliberato spettacolo di crudeltà. 

Sostenuta senza ritegno dall’Europa e dagli Stati Uniti, questa devastazione trasmette una serie di messaggi agghiaccianti: al mondo arabo, un triste promemoria della sua impotenza; ai palestinesi, l’insistenza sul fatto che la resistenza incontrerà un’inesorabile distruzione; al cosiddetto Sud globale, un velato avvertimento che quando la posta in gioco si alzerà, le norme e le regole internazionali saranno scartate, sostituite dalla forza sfrenata dell’impero. 

Per i palestinesi al di fuori di Gaza, la violenza non è solo sopportata, ma è assorbita, pressata nelle loro vite come se fosse una verità immutabile. Ogni bambino sepolto, ogni famiglia cancellata, ogni casa ridotta in macerie diventa un promemoria del loro posto in un mondo che si rifiuta di fermare il massacro e spesso lo permette. 

Per ogni grido da Gaza che cade nel vuoto, ogni proiettile che colpisce un medico o un’infermiera e ogni post sui social media che annuncia un altro martire, i palestinesi interiorizzano una narrazione crudele: che sono usa e getta, le loro vite scartate molto prima della loro morte. 

I palestinesi sono proiettati, senza volerlo, in una tragedia che si ripete, come se la loro sofferenza fosse inevitabile ed eterna, e a ogni massacro da coloro che cercano di sradicare l’idea e le pratiche di resistenza viene ricordato: “Perché avete osato e vi siete ribellati?”. 

Man mano che la normalizzazione dell’incapacità di fermare il genocidio prende piede, inizia ad alimentarsi un perverso spostamento della rabbia. La rabbia che dovrebbe essere diretta contro gli architetti della mostruosità – Israele – si rivolge sempre più all’interno, verso la resistenza stessa, sia come idea sia come pratica. 

Tufan al-Aqsa, l’operazione “Alluvione di Al-Aqsa” del 7 ottobre, viene presentata come un momento di follia non calcolata, Israele consolida la sua narrazione di vittoria e l’Autorità palestinese coglie l’opportunità di esercitare il suo potere contro la resistenza che ha osato sfidare lo status quo. 

L’affievolirsi della fiducia nella resistenza, l’erosione della fiducia nelle sue possibilità, si sono manifestate fino al punto in cui la resistenza stessa diventa il capro espiatorio e la precedente scommessa dell’Autorità palestinese di rimanere in disparte inizia a dare i suoi frutti. 

Per oltre quattordici mesi, il mondo ha assistito alla distruzione di Gaza, seguita dal successo di Israele nel neutralizzare la capacità militare e politica di Hezbollah di fornire sostegno. Questo apre la strada a coloro che hanno scommesso a lungo sulla paralisi, come l’ANP, per agire finalmente e dirigere i loro muscoli verso ciò che rimane della resistenza palestinese in Cisgiordania. 

Il paesaggio infernale di Gaza – il dolore, il trauma di un mondo sfatto – è stato accolto da una straordinaria protesta globale. Forti voci si sono levate, milioni di studenti, attivisti e persone comuni hanno alzato la posta in gioco, le organizzazioni mediatiche hanno instancabilmente denunciato i crimini di Israele e la barbarie dei sadici soldati israeliani è stata messa a nudo per tutti. Eppure, nulla di tutto ciò ha fermato la macchina. 

La macinante inevitabilità della distruzione è continuata, indifferente alla resistenza, indifferente all’umanità che annienta. 

Ma mentre il mondo guardava, lo stesso facevano i palestinesi che vivevano all’interno del dominio israeliano, la cui sopravvivenza si è basata su un calcolo difficile, scommettendo segretamente sulla cooperazione come mezzo per sopravvivere. 

Per loro, sopravvivere significa navigare negli ingranaggi implacabili della macchina, sperando di sopravvivere al suo peso schiacciante, anche a prezzo di tale cooperazione. 

La trasparenza del tradimento

Tempo fa, una delle ingiunzioni più ripetute per giustificare il sostegno a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) era l’affermazione che egli è “sincero”. Coloro che portavano avanti questa linea sottolineavano una virtù peculiare: a differenza dei suoi predecessori, Abu Mazen non traffica in fantasie o gesti politici performativi. 

Si impegna senza mezzi termini a cooperare con Israele, ma è onesto, diretto e senza alcuna pretesa di un approccio unidimensionale. Con Abu Mazen, ciò che si vede è ciò che si ottiene. Ma qui sta il paradosso, questa “veridicità” non è una virtù in senso convenzionale, ma un’onestà nel tradimento. 

È come se il disarmante candore di Abu Mazen nell’allinearsi agli interessi di Israele funzionasse da peculiare lubrificante ideologico, in grado di smussare le profonde contraddizioni al centro della sua leadership. 

In questo caso, la “veridicità” – una veridicità intesa non come integrità ma come cinica trasparenza – emerge non come virtù morale ma come strumento per nascondere l’origine di un surplus finanziario per la famiglia e i compari. 

In questa economia contorta, la stessa trasparenza del regime diventa il suo occultamento: l’aperta ammissione di carenze, fallimenti e bancarotta morale agisce come una strategia calcolata per proteggersi dalla critica. 

Ciò che si maschera come disarmante onestà è, in realtà, un’astuta coreografia, che allinea le parole senza soluzione di continuità con le politiche e le azioni: un tradimento mascherato da coerenza, uno spettacolo di confessione eseguito per disarmare il dissenso.

Abu Mazen non è ipocrita, è esattamente ciò che dice di essere. 

L’onestà, se usata come strumento politico, apre un mondo di inversioni e bugie. Essere onesti, nel senso di Abu Mazen, significa destabilizzare il terreno stesso su cui poggia il significato. È invertire i valori con la precisione di un bisturi, trasformando il coraggio in criminalità, la solidarietà in sedizione e la resistenza in una minaccia contro la collettività. 

Questa “onestà” non serve a illuminare ma a oscurare, creando un paesaggio caleidoscopico in cui ogni verità si trasforma nel suo contrario. Una simile strategia arma il candore;e qui, il candore di Abu Mazen svolge una funzione curiosa. 

Invece di essere un leader nazionalista che in futuro potrebbe deludere o tradire la causa, il suo candido tradimento fin dall’inizio riscrive la narrazione stessa della leadership e della responsabilità. 

Abbracciando apertamente una politica di complicità, Abu Mazen crea uno scudo paradossale: il tradimento, confessato e riconosciuto, diventa una strategia per evitare del tutto le responsabilità. 

Eppure, per molti palestinesi, questa franchezza è stranamente benvenuta: un amaro sollievo in un panorama in cui la ciclica frantumazione delle speranze è diventata una norma insopportabile. 

Forse è meglio sopportare un leader che ammette apertamente la sua capitolazione piuttosto che uno che ammanta il tradimento con la retorica della liberazione o, più tragicamente, un leader che cerca davvero la liberazione, è disposto a morire per essa, ma alla fine viene accolto con la stessa cocente delusione. 

Questa trasparenza, tuttavia, non è priva di complici. Trova il suo primo alleato nel discorso sul “realismo” e sulla “realtà”, dove la realtà di un Israele feroce e mostruoso, protetto dall’imperialismo, viene usata per liquidare come ingenue le questioni di etica o di resistenza. 

Il secondo alleato è un’infrastruttura economica finemente sintonizzata sul consumismo, che opera come logica materiale e simbolica. 

Questa infrastruttura non si limita a plasmare i desideri di una popolazione, ma impone attivamente condizioni in cui la sottomissione appare come l’unica linea d’azione “razionale”, ma anche quella che soddisfa il desiderio di seguire le tendenze di TikTok, di innamorarsi in un moderno centro commerciale o di aprire le porte di una vita in cui il paradiso dei prodotti di consumo è facilmente disponibile. 

In questo senso, il tradimento non è solo una scelta politica, ma diventa una modalità di esistenza, ammantata dal linguaggio della necessità e dell’inevitabilità. Ma soprattutto, con Abu Mazen non ci sono momenti di pura potenzialità politica, nessun Tufan al-Aqsa, nessuna breccia o trasgressione che rompa lo status quo e apra orizzonti di liberazione. 

C’è invece un ritmo ricorrente di complicità che, pur essendo costoso, rimane costante e stabile, offrendo una cupa prevedibilità al posto della possibilità di trasformazione. 

Già nei primissimi giorni della campagna aerea di distruzione di Israele su Gaza, i video dei discorsi e delle diatribe di Abu Mazen contro l’irrealismo e la follia della resistenza hanno fatto il giro di TikTok. Col tempo, la logica di Abu Mazen sostituirà la violazione dell’involucro di Gaza da parte di Sinwar, un gesto che ha lacerato il tessuto di controllo, provocando la guerra che ne è seguita. 

Il quietismo di Abu Mazen si allinea non solo alla macchina dell’occupazione, ma anche a una paura profondamente radicata, in sintonia con la disperazione sommessa dei palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme e all’interno di Israele. 

È una politica che dichiarala propria onestà attraverso l’atto stesso della capitolazione, una dialettica in cui la paralisi e il tradimento si mascherano come le uniche alternative possibili al caos e all’annientamento. 

La logica di Abu Mazen, martellata sulle macerie dalle bombe, inizia a tessersi nel tessuto intellettuale, guadagnando trazione con il riemergere di ritornelli familiari. 

Gli intellettuali palestinesi tornano a criticare l’Asse della Resistenza, mettendone in dubbio l’autenticità, denunciando l’interesse personale che guida le politiche iraniane e lamentando la presunta inutilità della lotta armata nel generare possibilità politiche. Molti di questi intellettuali sostengono “forme di resistenza” alternative o, più insidiosamente, il quietismo della sottomissione. 

Nel frattempo, altri mormorano di una Nakba più devastante di quella del 1948, una catastrofe silenziosa che si svolge a ritmo inesorabile. Le argomentazioni si accumulano come detriti: l’invincibilità delle forze armate israeliane, forti del sostegno incondizionato delle classi dirigenti occidentali; l’inevitabilità della sottomissione incorniciata come realismo. 

La retorica si ripiega su se stessa, disarmando la resistenza non con la sola forza bruta ma con l’erosione del suo terreno intellettuale e morale, lasciando che il silenzio non sia un consenso ma l’eco di un abbandono deliberato. 

A sorprendere non è stato solo il fatto che le FSP hanno lanciato una nuova operazione contro ciò che resta della resistenza organizzata nel nord della Cisgiordania, ma l’ampiezza della complicità intellettuale, mediatica e politica che l’ha accompagnata. 

L’operazione non è stata solo tollerata, ma attivamente legittimata, spesso attraverso la critica dei fondamenti e delle logiche della resistenza stessa. Da molti palestinesi l’operazione è stata accolta con il silenzio, una quiete collettiva che tradisce l’assenza di una protesta o di un’azione diffusa, con la sola esclusione dei circoli sociali intorno al movimento armato a Jenin. 

Le bombe, le aggressioni intellettuali e l’incessante guerra psicologica, unite alla mostruosità di Israele e al suo successo nel contenere l’asse della resistenza, hanno svuotato l’appello alla resistenza. 

I suoi valori, la sua architettura affettiva e la risonanza emotiva che un tempo unificavano una lotta collettiva ora sono diminuiti, lasciando dietro di sé un terreno segnato dalla disillusione e dal dubbio. In questo contesto, la stabilità e la brutale chiarezza del tradimento sembrano preferibili all’incertezza della resistenza. 

Rompere il tabù

L’inferno di Gaza è giunto in un momento in cui la rottura delle norme sembra quasi naturale. Il tabù, un tempo solido, del confronto diretto tra le FSP e le fazioni della resistenza nel nord della Cisgiordania si è disintegrato. Forte del suo immediato successo nel dimostrare ai palestinesi che la cooperazione garantisce la sopravvivenza, per ora, l’Autorità palestinese osa far marciare le sue forze nel cuore del campo profughi di Jenin. 

Lì uccide un leader chiave della resistenza, versando nel frattempo il sangue di un bambino palestinese, e giura di rimanere fino a quando il controllo su Jenin e sul suo campo non sarà totale. 

Per anni, tra i palestinesi – soprattutto tra quelli impegnati nella resistenza – è prevalsa una regola non scritta: evitare le lotte intestine, soprattutto lo spargimento di sangue palestinese. Questo principio, più che una semplice astrazione, è stata un’etica guida, anche nei momenti di pressione insopportabile. 

Quando le FSP hanno circondato Bassel al-Araj e i suoi compagni, egli avrebbe potuto reagire, ingaggiando uno scontro a fuoco che avrebbe potuto trasformarsi nell’ennesima tragedia di palestinesi contro palestinesi. 

Invece, Bassel ha scelto la resa, sopportando l’arresto e la tortura piuttosto che violare il fragile confine che tiene insieme una società in frantumi e in crisi. 

Ciò riflette il momento attuale, in cui la “resistenza”, sia come concetto sia come pratica, si è piegata sotto il peso schiacciante della mostruosità implacabile di Israele e della sua disponibilità a dispiegare tutta la forza del suo arsenale di fabbricazione americana. 

L’ANP, sempre desiderosa di soddisfare le richieste di Israele e degli Stati Uniti, sembra sempre più disposta a giocare d’azzardo con lo spettro di una sanguinosa guerra civile. 

È pronta a versare sangue palestinese, non solo per dimostrare le capacità delle sue tattiche di contro-insurrezione, ma anche per sfruttare la gravità simbolica e morale dello spettro del fratricidio, un’arma potente come un’altra per mantenere il suo potere. 

Ha scelto di farlo in un momento in cui i movimenti di resistenza sono in ritirata e le forze che sostengono la sopravvivenza attraverso la cooperazione sono in ascesa. 

Questa operazione è indubbiamente rischiosa, con il potenziale, molto reale, di ritorcersi contro di essa quando gli scontri interni minacceranno di aumentare e il bersaglio dei quadri coinvolti nell’operazione delle FSP – o di coloro che l’hanno ordinata – diventerà più palpabile e, per molti, più giustificabile. 

L’ANP sta scommettendo sul fatto che, come Basselal-Araj, la resistenza e i suoi quadri sceglieranno di evitare lo spargimento di sangue interno,optando per la capitolazione, anche a costo di arresti e torture. 

Tuttavia, ciò che è certo è che il tabù di lunga data sul versamento di sangue palestinese – un confine morale fragile ma cruciale – ha storicamente fornito un cuscinetto che ha protetto sia la classe dirigente sia coloro che cercavano di sfidarne l’autorità. Ha tentato di prevenire le faide familiari e l’intensificarsi delle contraddizioni interne tra le varie forze politiche. 

Oltrepassando questa linea, l’ANP non solo rischia di erodere ulteriormente la propria legittimità, ma smantella anche una barriera etica condivisa che un tempo frenava la discesa nel conflitto interno. 

L’ANP ha scelto di infrangere questo tabù in un momento in cui la sua logica di cooperazione – sostenuta dalla mostruosità di Israele e dalla narrazione della necessità – è al suo apice. Tuttavia, questa decisione non è priva di rischi: rischia di complicare la presa di potere dell’Autorità palestinese in Cisgiordania, approfondendo potenzialmente le stesse fratture che cerca di sopprimere. 

Dopo tutto, un’operazione di questa portata,come qualsiasi forma di impegno attivo, genera inevitabilmente incertezza, svelando uno degli aspetti che costringono i palestinesi ad aggrapparsi all’Autorità palestinese. 

Quanto più a lungo si trascina l’operazione delle FSP, quanto più sanguinosa diventa e quanto più grandi sono i sacrifici che richiede, tanto più forti saranno le campane del pericolo per la classe dirigente della Cisgiordania. 

In un simile panorama, il linguaggio del lamento o della vergogna vacillerà sotto il peso del sangue versato.

Man mano che i rintocchi aumenteranno, le grida di vendetta annegheranno gli appelli alla moderazione, trasformando il dolore in un’implacabile richiesta di resa dei conti.

* da Mondoweiss, 24 dicembre 2024

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1 Commento


  • Leonardo

    La Resistenza palestinese deve fare i conti con il venir meno dell’Asse della Resistenza, in cui aveva inquadrato il 7 ottobre. Ma l’ANP deve rendersi conto che il suo trono di cartone difficilmente salverà i Palestinesi dalla pulizia etnica o peggio, visto che i nazisti con la Stella di Davide si sentono (fondatamente) con le spalle coperte e pronti a tutto (ci sono elementi del governo israeliano definiscono Abu Mazen un “terrorista”, né più né meno).

    Se la Resistenza è con le spalle al muro, per l’ANP, senza alcun vero alleato efficace, c’è ancora la forza dell’inerzia e dei piccoli privilegi garantiti dal fatto di essere su un libro paga da decenni dopo Oslo, nonché l’illusione di uno spazio di manovra che è dato però solo da improbabili e funzionali concessioni di un nemico mortale da cui si dipende in tutto e per tutto.

    La Storia come la Vita, dimostra che non è vero che “c’é sempre una Soluzione”. Un individuo può trarne le debite conseguenze, ma per un popolo le cose stanno diversamente.

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