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La guerra commerciale alla Cina a ridosso dell’insediamento di Trump

Il 6 e 7 gennaio è stato diffuso l’aggiornamento periodico di due liste statunitensi che sono un po’ la cartina tornasole di quanto la globalizzazione sia ormai un ricordo lontano. E anche di quanto l’incancrenirsi della guerra commerciale si vada sempre più spostando verso il piano propriamente bellico.

Il giorno dell’Epifania sono state aggiunte 13 realtà alla Entity List, un elenco di individui, organizzazioni e compagnie stilato dal Dipartimento del Commercio USA. Chi finisce in questa lista viene sottoposto a restrizioni sulle esportazioni o alla necessità di ottenere specifiche licenze.

11 di queste 13 realtà sono aziende cinesi, accusate di essere coinvolte nello sviluppo delle forze armate del Dragone attraverso la fornitura di particolari tecnologie. Viene stigmatizzato quello che a Washington definiscono lo “sforzo cinese di fondere la dimensione civile con quella militare“.

All’origine di questa decisione vi è ufficialmente la preoccupazione di una svolta cinese verso un’economia di guerra e la possibile applicazione dual use di alcuni strumenti e innovazioni. Cioè quello che è ormai conclamato nei meccanismi quotidiani dell’Occidente e contro cui si sono mobilitati gli studenti di tante nostre università negli ultimi mesi.

Il portavoce del ministero del Commercio di Pechino si è opposto fermamente alla scelta statunitense. Ha anche sottolineato come Washington abusi arbitrariamente del concetto di “sicurezza nazionale” per colpire le aziende di altri paesi, minando le catene di approvvigionamento, e per questo il suo ministero adotterà simmetriche misure di contrasto.

Il giorno successivo, il 7 gennaio, il copione si è ripetuto con la black list del Pentagono. Si tratta di un elenco rivisto ogni anno che, ad oggi, conta 134 società cinesi operanti negli USA, le quali sono considerate dai vertici delle forze armate statunitensi come facenti parte o collegate al complesso militare-industriale del Dragone.

Queste società non subiscono sanzioni o altri effetti immediati sulle proprie attività, anche se è evidente che viene in questo modo “consigliata” una minor propensione a farci affari. Soprattutto perché, comunque, con esse il Pentagono non potrà stipulare contratti a partire da giugno 2026, e dal 2027 non potrà più acquistare beni o servizi che includano questi gruppi in un qualsiasi passaggio della filiera.

Ma quest’anno le new entries della lista sono sigle che fanno più rumore del solito. Infatti, oltre a un’impresa impegnata nel settore dei semiconduttori, due aziende del mondo delle tecnologie dell’informazione e al produttore di droni Autel Robotics, sono state aggiunte anche Cosco Shipping, Tencent Holdings e Catl.

La prima è un colosso del trasporto marittimo, accusata di aver contribuito con proprio mezzi alle esercitazioni militari intorno a Taiwan. La seconda è tra le più grandi società al mondo per capitalizzazione e si occupa di videogiochi e social media (è la proprietaria di WeChat, il servizio di messaggistica principale della Cina, ormai diventato una piattaforma per videochiamate, acquisti e molto altro).

Catl è leader indiscussa nella produzione di batterie per auto elettriche. Controlla oltre un terzo del mercato, e la percentuale raggiunge il 40% quando si parla di sistemi di accumulo in generale. Con le aggiunte nella black list il Pentagono vuole evitare che l’intelligenza artificiale avanzata, l’informatica quantistica, la biotecnologia e i circuiti integrati di queste aziende possano sostenere scopi militari.

I gruppi imprenditoriali appena citati hanno già annunciato di essere pronti a chiedere chiarimenti e a fare ricorso (come aveva fatto Xiaomi nel 2021, ottenendo di essere espunta dall’elenco). Ma al di là delle vie legali, è di certo indiscutibile che le ultime mosse dei Dipartimenti del Commercio e della Difesa siano un segnale unilaterale di netto inasprimento della guerra commerciale tra Washington e Pechino.

Basti pensare al contorno di una scelta del genere per ciò che riguarda Catl, ad esempio. Dalla fine del 2023 Ford ha dato seguito a un accordo di collaborazione con la sigla cinese, che ha concesso licenze sulle sue tecnologie per la produzione di batterie in stabilimenti situati in Michigan, mentre nei primi mesi del 2024 i macchinari di Catl sono arrivati nella gigafactory di Tesla nel Nevada.

La casa automobilistica di Musk è indicata da Bloomberg come il maggior acquirente dalla società cinese. Ma è chiaro che il miliardario sudafricano non voglia dipendere dal nemico strategico di Washington per le sue vetture, tanto più ora che si appresta a entrare nell’amministrazione Trump, dalla mano pesante quando si parla di Cina.

Tesla sta sviluppando la batteria 4680, ma proprio il fondatore di Catl, Robin Zengo, aveva già dichiarato in passato che il progetto sarebbe fallito perché Musk “non sa come realizzare una batteria“. Ma ora il quadro politico può dare una spinta alla frammentazione del mercato mondiale nel settore e il fondatore di Tesla potrebbe avvantaggiarsene nell’Occidente “vassallizzato“.

Marco Rubio, che tra pochi giorni sarà il nuovo Segretario di Stato statunitense, si era già opposto alle collaborazioni con Catl perché ciò avrebbe aumentato la dipendenza degli USA dalla Cina in settori strategici. Si è poi prodigato affinché la società di batterie venisse messa al bando per legami con l’esercito del Dragone.

Non c’è dubbio, dunque, che l’inserimento di Catl nella black list della Difesa sia espressione diretta della politica estera promossa da Trump. E di come quindi anche Musk si sia imbarcato nel tentativo di aprire un solco tra Stati Uniti e Cina nella commercializzazione delle batterie elettriche, garantendo di poter sostenere lo scontro magari trascinandosi dietro i paesi europei.

Sempre Bloomberg ha riportato le parole di Kishore Mahbubani, in passato ambasciatore per Singapore alle Nazioni Unite. Secondo Mahbubani, imboccando questa strada “gli USA non stanno disaccoppiando [la propria economia] solo dalla Cina. È disaccoppiamento anche dal resto del mondo“, considerato quanti paesi si riforniscono da Pechino.

Ma è difficile pensare che alla Casa Bianca, viste anche le ultime esternazioni di Trump, si permetta ai membri della cornice euroatlantica di muoversi in contrasto con Washington. Anche le dipendenze dalla Tesla conclamate nell’automotive europeo preparano il terreno a quello che, semmai, sarò uno strappo che verrà imposto anche nel Vecchio Continente.

Catl ha 13 stabilimenti, e due di questi si trovano in Europa (uno a Erfurt, in Germania, e l’altro a Debrecen, in Ungheria). Stellantis, che ha importanti interessi negli States, ha annunciato poche settimane fa una joint venture con la compagnia cinese per creare una fabbrica di batterie a Saragozza, in Spagna: un investimento totale da oltre 4 miliardi di euro.

Allo stesso tempo, Stellantis ha ottenuto – insieme a Samsung – un finanziamento pubblico statunitense da ben 7,5 miliardi di dollari per costruire due centri di produzione di batterie in Indiana. Ma Vivek Ramaswamy, che guiderà il Dipartimento dell’Efficienza, proprio fianco a fianco con Musk, aveva commentato su X che una tale concessione sarebbe stata riesaminata dall’amministrazione Trump.

Come detto, l’aggiunta di Catl alla black list del Pentagono non ha ripercussioni immediate, ma è facile mettere insieme gli indizi della linea dura che il nuovo inquilino della Casa Bianca sta preparando nei confronti dei rapporti commerciali con la Cina. E di come si stiano preparando tutte le leve di ricatto per portarsi dietro tutta la filiera euroatlantica.

Il grande capitale su base europea e i suoi rappresentanti a Bruxelles non avranno molte alternative, data la disperante pochezza strategica che hanno dimostrato.

Immaginate il colpo che subirà la già malandata industria europea… perché è probabile che a breve lo sentiremo sulla nostra pelle, trasferendosi da colossi come Stellantis alle nostre tasche.

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