C’è stata una fase possiamo dire ‘interlocutoria’, ma è durata due mesi e poco più: dal 2 aprile gli Stati Uniti imporranno dazi in maniera permanente su vari prodotti, e ora c’è la conferma che tra di essi ci saranno pure le auto. A fare le spese di queste gabelle, oltre ovviamente al nemico strategico principale, ovvero la Cina, saranno sostanzialmente solo gli ‘alleati’ di Washington.
Un messaggio chiaro che certifica la rottura dell’impianto euro-atlantico per un riequilibrio significativo dell’impegno fino ad oggi profuso dentro questo blocco. Un impegno che aveva visto gli USA farla da padrone in politica estera, garantendo però così alla UE una scontata copertura militare, anche costosa, all’interno della quale Bruxelles aveva potuto nutrire le sue aspirazioni autonome.
Ora la nuova amministrazione Trump vuole fare i conti con il peso ormai insostenibile del debito pubblico (persino tagliando le spese militari) e con il forte squilibrio della bilancia commerciale (per beni e merci, non per i servizi). I dazi hanno proprio lo scopo di colpire le importazioni, su cui l’economia comunitaria (come “esportatrice”) sostanzialmente si fonda.
Andando al contenuto delle misure annunciate, dallo Studio Ovale il presidente statunitense ha parlato di tariffe al 25% sulle auto che arrivano negli States. Queste si aggiungono ai dazi su acciaio, alluminio e prodotti derivati, portati anch’essi appena due settimane fa al 25%. Si prevedono entrate tra i 600 miliardi e il trilione di dollari, significative per mettere intanto una pezza sui conti pubblici.
Nel dettaglio, il 25% sulle auto si aggiunge a barriere già esistenti del 2,5% e al 25% già in vigore sugli autocarri leggeri e fino ai 3.860 chili. Le misure scatteranno anche sui componenti non oltre il 3 maggio, con un peso significativo che è confermato indirettamente anche da Elon Musk, il quale ha scritto su X che “questo influenzerà il prezzo di parti delle macchine Tesla“.
Trump ha annunciato che i dazi verranno imposti anche su prodotti farmaceutici e, per quanto riguarda il legname, è stata avviata un’indagine commerciale (la strategia della Casa Bianca potrebbe svolgersi in due tempi, puntando intanto a incassare i dazi sulle auto). Tremano ovviamente anche i produttori del made in Italy agricolo, che vedono nelle esportazioni al di là dell’Atlantico un mercato vitale.
Giorgia Meloni sembra perciò restare all’asciutto rispetto alla sperata flessibilità nei confronti dell’Italia, anche se il tycoon continua a dire che una revisione di alcune tariffe potrà avvenire sulla base di intese specifiche. Ma per trattare bisogna avere qualcosa che l’altro vuole, e non sembra questo il caso dei paesi europei che fanno parte dei “dirty 15“.
Parliamo dei partner commerciali con cui Washington ha il maggiore squilibrio e che, secondo Trump, hanno giocato sporco nei confronti degli USA. Il presidente degli Stati Uniti ha anche minacciato di aggravare le misure nel caso in cui UE e Canada si coordino per reagire alle sue scelte.
Paradossalmente, è la Cina l’unico attore ad avere ancora qualcosa di utile da portare al tavolo degli scambi: ByteDance, casa madre di TikTok, ha tempo fino al 5 aprile per cedere le attività a una società non cinese, prima che ne vengano bloccate le attività negli Stati Uniti. Ma per ora questa ipotesi è stata rifiutata.
Tra gli annunci degli ultimi giorni, va sottolineato quello per cui verranno imposte tariffe del 25% su qualsiasi merce proveniente da paesi che acquistano petrolio o gas dal Venezuela. Una scelta che potrebbe ampliare la lista di chi subirà i provvedimenti statunitensi, ma appare chiaro che i primi a subirne gli effetti sono proprio i paesi europei.
Proprio ieri il commissario UE al Commercio, Maros Sefcovic, era negli Stati Uniti per trovare un punto di incontro con i funzionari statunitensi. L’annuncio immediatamente successivo da parte di Trump palesa l’evidente chiusura verso Bruxelles e i paesi che rappresenta e, dunque, anche l’alleata Meloni.
Il 2 aprile è stato perciò indicato dal presidente come il “giorno della liberazione“… sostanzialmente dalla zavorra europea, dai “parassiti” al di là dell’Atlantico, come ha detto Vance. Il 12 aprile, poi, dovrebbero scattare i contro-dazi europei, ma secondo molti faranno più male che bene alla stessa UE.
Per quanto riguarda l’impatto su altri indicatori da tenere a mente, l’annuncio dei dazi ha portato ulteriore fibrillazione nelle prospettive di investimento e della finanza. Uno dei primi risultati è stato l’ulteriore aumento del prezzo dell’oro, ricercato come bene rifugio e di cui il prezzo è dunque salito: il contratto future ha toccato il massimo storico a 3.094 dollari l’oncia, per poi ripiegare leggermente a 3.090.
Guardando alle borse, c’è stato ovviamente un ribasso, legato soprattutto alle quotazioni dei colossi dell’auto. È stato più forte però sulle piazze statunitensi – e in parte quelle giapponesi – che sulle principali europee, che hanno in parte recuperato le perdite. La prima reazione, dunque, è stata che la ricerca dei “rendimenti” ha spostato capitali verso l’Europa.
Bisognerà tenere d’occhio come ciò impatterà sul cambio tra il dollaro e l’euro. Il ‘biglietto verde’ si è leggermente deprezzato nel corso di marzo, dopo l’apprezzamento sostanziale degli ultimi mesi, e ciò potrebbe significare che gli operatori di mercato credono ancora alla possibilità di evitare almeno parzialmente i dazi reciproci.
Ad ogni modo, ciò non può che aiutare l’obiettivo della Casa Bianca: se Trump vuole ridurre lo squilibrio commerciale, un dollaro più debole è fondamentale. Anche le decisioni della Federal Reserve impatteranno su questo dossier, col rendimento dei Treasury a 10 anni stabilmente sopra il 4% da mesi, ma i timori inflazionistici che sconsigliano il board della banca dal procedere a tagli dei tassi.
Bisogna ora attendere il 2 aprile per avere un quadro completo di come la guerra commerciale, ormai conclamata, si evolverà.
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