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La rivolta della Gen-Z in Nepal riguarda lavoro, dignità. E un modello di sviluppo fallito

Kathmandu è sull’orlo della crisi non a causa di “app”, ma perché una generazione cresciuta con la promessa di democrazia e mobilità sociale si è scontrata con un sistema economico e politico che continua a chiudere ogni porta.

Il grilletto immediato è stato normativo: il governo ha ordinato a 26 grandi piattaforme social di registrarsi localmente e ha iniziato a bloccare quelle ritenute non conformi, inclusi Facebook, YouTube, Instagram, WhatsApp, X e altri. La folla si è riversata verso il Parlamento; la polizia ha dispiegato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e, in diversi luoghi, fuoco reale.

Entro la tarda sera del 9 settembre, almeno 19 persone erano state uccise e ben oltre 300 ferite. Sotto pressione, il governo ha revocato il blocco dei social media e il Primo Ministro K. P. Sharma Oli si è dimesso.

La scintilla è stato il blocco. Il combustibile era l’economia politica

È allettante – specialmente da lontano – raccontare questo scontro come una “battaglia per le libertà digitali”. Sarebbe un’analisi superficiale.

Per i nepalesi della Gen-Z, le piattaforme non sono solo intrattenimento; sono bacheche di lavoro, agenzie di stampa, strumenti di organizzazione e linee vitali sociali. Spegnerle – dopo anni di deriva economica – è sembrato una punizione collettiva.

Ma la storia più profonda è strutturale: la crescita del Nepal è stata stabilizzata dalle rimesse piuttosto che trasformata da investimenti interni capaci di produrre lavoro dignitoso. Nell’anno fiscale 2024/25, il Dipartimento per l’Impiego Estero ha rilasciato 839.266 permessi di lavoro – un’emigrazione sbalorditiva per un paese di circa 30 milioni di abitanti.

Le rimesse si sono attestate attorno al 33% del PIL nel 2024, uno dei più alti al mondo. Questi numeri parlano di sopravvivenza, non di progresso sociale; sono un referendum su un modello che esporta la sua gioventù verso contratti a basso salario mentre importa beni di prima necessità, e che dipende dal clientelismo piuttosto che dalla produttività.

Ecco perché il blocco è esploso così rapidamente. Con un tasso di sotto-occupazione e disoccupazione giovanile già alto – al 20,82% nel 2024 – un ricambio ministeriale alla norma e scandali di corruzione all’ordine del giorno, i tentativi di controllare lo spazio digitale sono sembrati meno “ordine” e più umiliazione.

La forma del movimento – rapida, orizzontale, interclassista – riecheggiava le mobilitazioni studentesche del Bangladesh e l’Aragalaya dello Sri Lanka: studenti delle scuole e università in uniforme, laureati disoccupati, lavoratori occasionali e del settore informale, e un più ampio pubblico disilluso si sono uniti attorno a un verdetto condiviso sul malgoverno.

Fatti sul campo: vittime, coprifuoco e marcia indietro

La sequenza degli eventi è inequivocabile. Un ampio ordine di registrazione e la decisione di bloccare hanno acceso le proteste; le forze di sicurezza hanno risposto con una forza crescente; entro lunedì sera 19 persone erano morte e centinaia ferite; coprifuoco e divieti di assembramento si sono diffusi; il Ministro degli Interni si è dimesso; un vertice di gabinetto d’emergenza ha ritirato il blocco; entro la giornata di martedì Oli si è dimesso.

È importante notare che il malcontento non è mai stato solo digitale. Striscioni e cori si sono concentrati sulla corruzione, l’impunità delle élite e l’assenza di un orizzonte di sviluppo credibile. Amnesty International ha chiesto un’indagine indipendente su un possibile uso illegale della forza letale – un altro motivo per cui la rivolta si è trasformata da una disputa sulle piattaforme a una crisi di legittimità.

La migrazione come plebiscito silenzioso

Se una metrica spiega lo stato d’animo generazionale, è quella delle Uscite. 839.266 permessi di lavoro rilasciati nell’anno fiscale 2024/25 (in netto aumento rispetto all’anno precedente) si traducono in migliaia di persone che partono ogni giorno.

Questi non sono turisti; sono la stessa coorte che ora è in strada. Le loro rimesse – ~33% del PIL – mantengono a galla le famiglie e pagano le importazioni, ma mascherano anche una mancanza di trasformazione strutturale nell’economia domestica.

In un sistema che non può assorbire i suoi giovani istruiti in un lavoro stabile e che aggiunga valore, la piazza pubblica – online e offline – diventa l’unico luogo in cui la dignità può essere affermata. Tentare di chiudere quella piazza in mezzo alla scarsità era destinato a provocare un’esplosione.

Una ferita auto-inflitta per la sinistra nepalese

A seguito del programma quadriennale di Credito Esteso (ECF) del FMI in Nepal, il governo ha affrontato pressioni per aumentare le entrate domestiche. Ciò ha portato a una nuova Tassa sui Servizi Digitali e a regole IVA più severe per i fornitori stranieri di servizi digitali, ma quando le principali piattaforme si sono rifiutate di registrarsi, lo Stato ha fatto un salto di qualità, bloccandole.

Questa mossa, iniziata come uno sforzo di applicazione fiscale, è diventata rapidamente uno strumento di controllo digitale, ed è avvenuta mentre il pubblico stava già affrontando l’aumento dei costi del carburante e difficoltà economiche spinte dalla spinta del programma per il consolidamento fiscale.

Il blocco governativo delle piattaforme è diventato il grilletto finale per diffuse proteste contro la corruzione, la disoccupazione e la mancanza di opportunità, evidenziando che l’instabilità era meno una “rivoluzione colorata” e più un malcontento materiale alimentato da misure di austerità.

Il fatto che la repressione e la sua resa dei conti politica si siano svolte sotto un primo ministro del CPN (UML) rende questa una calamità strategica per la sinistra nepalese. Anni di scissioni fazionistiche, coalizioni opportunistiche e deriva politica avevano già eroso la credibilità tra i giovani.

Quando un governo ufficialmente di sinistra restringe lo spazio civico invece di ampliare le opportunità materiali, cede il terreno morale ad attori che prosperano sul cinismo anti-partitico – politiche di culto della personalità e una destra monarchica riemergente.

Quest’ultima si è mobilitata visibilmente quest’anno; con le dimissioni di Oli, cercherà di proporsi come garante dell'”ordine”, anche se la sua visione economica rimane superficiale e regressiva. Questo è il pericolo: le stesse forze più ostili a una trasformazione egualitaria possono capitalizzare il malgoverno della sinistra per espandere la loro presenza.

Da un punto di vista anti-imperialista – che si oppone al privilegio del Nord, ma insiste su un’analisi non sentimentale – la crisi è da manuale: dipendenza senza sviluppo.

Le rimesse levigano i consumi ma consolidano la dipendenza esterna; gli aggiustamenti di governance guidati dai donatori raramente diventano politiche industriali prioritarie per l’occupazione; e la spesa pubblica pesante negli appalti alimenta circuiti di rendita più che la capacità produttiva.

In un simile ordine, lo Stato è tentato di controllare la visibilità piuttosto che trasformare le condizioni. Ecco perché un tentativo di regolamentare le piattaforme spegnendole – piuttosto che assicurando il giusto processo e un intervento mirato – è stato letto come uno sforzo per gestire il dissenso, non per risolvere i problemi.

Cosa ci dicono i segnali dell’opposizione (e cosa non dicono)

Le dichiarazioni dell’opposizione hanno riconosciuto il quadro più ampio prima del governo. Pushpa Kamal Dahal (Prachanda) ha espresso le condoglianze, ha esortato ad agire sulle richieste anti-corruzione e ha chiesto di rimuovere “le sanzioni sulle reti sociali“.

Le dichiarazioni del CPN (Socialista Unificato) e del CPN (Centro Maoista) hanno condannato la repressione, richiesto un’indagine imparziale e collegato le restrizioni digitali ai fallimenti su lavoro e governance.

Queste reazioni contano analiticamente perché mostrano che anche all’interno della politica mainstream c’è il riconoscimento che la crisi riguarda i mezzi di sussistenza e la legittimità, non solo l’ordine pubblico.

Ma questi segnali rivelano anche la “narrazione” della sinistra: se le sue figure di spicco possono solo reagire a una rivolta giovanile piuttosto che prefigurare l’orizzonte di sviluppo che l’avrebbe prevenuta, allora l’arena sarà dominata da correnti anti-establishment e realiste, che rivendicano di portare l’ordine più rapidamente – anche a costo dello spazio democratico.

In sintesi

Queste proteste in Nepal sono iniziate perché un governo ha tentato di regolamentare spegnendo la piazza pubblica. Sono esplose perché quella piazza è il luogo in cui una generazione precaria cerca lavoro, comunità e voce in assenza di opportunità in patria.

Un resoconto completo deve quindi registrare sia il costo umano – 19 morti e centinaia di feriti – che il costo strutturale: centinaia di migliaia di persone costrette a partire ogni anno e rimesse che sostengono i consumi mentre posticipano la trasformazione.

Con le dimissioni di Oli e il blocco revocato, lo scontro immediato potrebbe scemare, ma il verdetto emesso dalla Gen-Z non lo farà.

Fino a quando il Nepal non sostituirà la compiacenza delle rimesse e l’aritmetica delle coalizioni con un modello di sviluppo prioritario per l’occupazione, le strade rimarranno l’arena più credibile di responsabilità.

* Fonte: GlobetrotterBio degli autori: Questo articolo è stato prodotto da Globetrotter. Atul Chandra è un ricercatore del Tricontinental: Institute for Social Research. I suoi ambiti di interesse includono la geopolitica in Asia, i movimenti di sinistra e progressisti nella regione e le lotte nel Sud del mondo. Pramesh Pokharel è un analista politico e docente part-time di Antropologia all’Università Tribhuvan. È membro del Comitato Centrale del CPN (Socialista Unificato) e Segretario Generale della Federazione di Tutti i Contadini del Nepal.

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6 Commenti


  • Paolo

    Lunga e dettagliata analisi.
    Tuttavia, da bravo complottista, mi erano venuti dei dubbi da subito: il momento storico, la posizione geografica, la violenza dei pacifici manifestanti, i partecipanti alla sommos…alla manifestazione (i ggiovani universitari). Mah…un déjà vu (Pakistan, Siria, Libia, Ucraina etc etc etc?).
    Poi vedo che tra gli organizzatori delle rivolte c’è una ONG, HAMI NEPAL; cercatela sul suo sito e vedrete che tra i “BRANDS THAT SUPPORT US” troviamo Coca Cola e STUDENT FOR A FREE TIBET, altra organizzazione per “le libertà e i diritti umani” finanziata dal National Endowment for Democracy.
    In breve, la solita rivoluzione colorata finanziata dagli USA, da infilare a cuneo tra Russia e Cina dopo l’indigesto SCO, BRICS etc.
    Nell’articolo, nemmeno un vago riferimento. Complimenti.


    • Redazione Contropiano

      come avrai verificato, l’articolo è ripreso da GlobeTrotter, che scrive in genere cose interessanti, ma non coincidenti con le nostre idee. Si chiama informazione.


  • Enea Bontempi

    Cari compagni, gli articoli della stampa esterna meritevoli di pubblicazione in un sito antagonista vanno scelti con cura, altrimenti si fa il gioco della mistificazione non dell’informazione. Concordo pienamente con l’intervento di Paolo.


    • Redazione Contropiano

      Crediamo comunque che gli articoli scelti diano informazioni superiori alle convinzioni coltivate da lontano. Anche i governi amici possono commettere errori di gestione. Negarselo è autorassicurante, ma non utile… Se poi qualcuno crede di avere informazioni più veritiere – oltre lo schema “riavvicinamento Cina-India, ergo rivoluzioni colorate” (sicuramente c’è chi ci inzuppa il pane, ma ci deve essere “un brodo”, altrimenti non inzuppa niente) – le scriva.


  • Enea Bontempi

    Certo che c’è il “brodo”, ma c’è anche il sangue e non solo quello delle vittime della repressione. La violenza di massa fomentata dai “soliti noti” si è diretta contro importanti funzionari politici comunisti, come dimostra l’uccisione di Rajyalakshmi Chitrakar, moglie dell’ex Primo Ministro Jhalanath Khanal. E tu che fai: ti schieri con i tagliagole pagati dalla CIA? E nell’Ungheria del 1956 ti saresti schierato con la feccia reazionaria che impiccava i funzionari del partito comunista?


    • Redazione Contropiano

      Confondere l’analisi strutturale dei fatti con lo”schieramento” è un errore che porta alla cecità.

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