Appare sempre più evidente, come avevamo anche analizzato in un precedente contributo (vedi qui), il fatto che ci troviamo in una fase di cambiamento delle politiche economiche messe in campo dal nostro governo, ma la dimensione di questo cambiamento dipende in modo predominante dalla scelta o meno di rimanere dentro le regole dell’Unione Europea, la quale a sua volta si trova ora di fronte a un bivio.
Può continuare sulla strada percorsa finora di entità a metà strada fra un’istituzione internazionale e una sovranazionale, fondata sulla competizione interna e su una colonizzazione di fatto dei paesi Mediterranei e dell’Est a favore del capitale centrale a guida franco-tedesca, cosa che la condurrà con tutta probabilità alla sua disgregazione.
Oppure può cambiare radicalmente rotta, sia rispetto al proprio funzionamento, andando verso una integrazione economica reale (per esempio attraverso una politica fiscale comune o l’emissione di eurobond), sia rispetto alle politiche economiche che l’hanno caratterizzata fin dalla sua nascita, ossia austerità, piegamento del settore statale alle necessità di quello privato, ecc.
Guardando l’esito delle riunioni dell’Eurogruppo della settimana passata (leggi qui), nonché le recenti dichiarazioni della presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen (leggi qui), sembra che in questo momento la prima opzione stia prevalendo a livello istituzionale.
In modo quasi del tutto inaspettato, invece, l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, si è fatto paladino della seconda opzione con un editoriale sul Financial Time (leggi qui).
In quest’articolo, infatti, assumendo posizioni lontanissime dai mantra che ci sono stati ripetuti fino alla nausea in tutti questi anni, ha affermato la necessità di un forte e massiccio intervento statale, a prescindere dall’aumento di debito pubblico, per far fronte all’emergenza Coronavirus paragonandola ad una situazione di guerra di cui nessuno ha colpa.
Questa posizione ha immediatamente ricevuto il plauso di tutte le forze politiche in parlamento, da Gualtieri a Renzi a Salvini, e si allunga la lista di persone che vedrebbero bene l’ex-banchiere alla guida di un governo tecnico di unità nazionale.
Alle forze politiche si sono poi affiancati sia economisti sostenitori fino a ieri dell’ordoliberismo più puro, come Tabellini, Alesina e Giavazzi, ma anche economisti eterodossi (ovvero che non si adeguano al paradigma dominante nelle facoltà di economia occidentali) “di sinistra” ed euroscettici, soddisfatti che nientemeno che Draghi si sia apparentemente avvicinato alle loro posizioni.
Come marxisti e comunisti, invece, riteniamo necessario non farci incantare da questi canti da sirene, soffermandoci in particolare su due aspetti. In primo luogo è fondamentale ricordarsi chi è Mario Draghi, da dove viene e quale è stato il suo ruolo negli ultimi anni, analizzando anche cosa ha effettivamente detto.
Ma soprattutto è necessario collocare l’analisi dei possibili scenari che ci si presentano (e non è possibile al momento prevedere quale di questi si concretizzerà) all’interno della fase che il Modo di Produzione Capitalista sta attraversando a livello globale. Dobbiamo cioè ricordarci il ruolo che la costruzione dell’Unione Europea gioca all’interno della competizione inter-imperialista internazionale.
Dicevamo, chi è Mario Draghi? Per prima cosa, è uno degli artefici delle privatizzazioni delle società partecipate dallo Stato italiano, nel ruolo di Direttore generale del Tesoro italiano dal 1991 al 2001. Poi, è un ex-banchiere, ha infatti lavorato dal 2002 al 2005 in Goldman Sachs, fino a ricoprire il posto di membro del Comitato esecutivo della nota banca d’affari.
In seguito, è stato Governatore della Banca d’Italia dal 2005 al 2011, in cui ebbe una responsabilità enorme e legata al suo precedente incarico nel non fermare l’acquisto scriteriato di Antonveneta da parte di Monte Paschi Siena, che portò al quasi fallimento della terza banca italiana.
Infine, è stato Presidente della Banca Centrale Europea dal 2011 al 2019, in cui si prodigò a piegare i governi “non allineati” giocando un ruolo decisivo nel piegare il governo Tsipras in Grecia (modificando i criteri di accesso al credito per le banche greche nel momento di crisi più acuta) e mandando la famosa lettera insieme a Trichet all’Italia (intimando privatizzazioni di larga scala, flessibilizzazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni e al welfare), cosa che ci portò poi al Governo Monti.
Come non ricordare che pure quella volta in tanti festeggiarono l’arrivo del salvatore della Patria…
Tuttavia, è importante notare il fatto che Draghi ha anche salvato i mercati finanziari e l’eurozona con il suo Quantitative Easing e lo ha fatto piegando le regole dei trattati e utilizzando sistemi di fatto fuori da ogni immaginario (tra cui la decisione di stabilire tassi di interesse negativi, scelta mai nemmeno ipotizzata da qualsiasi manuale di economia).
Draghi ha così mostrato di essere uno degli esponenti più lucidi e pragmatici della classe dominante europea, potremmo dire un campione della borghesia continentale e dei suoi interessi.
Con la lettera al FT di cui parlavamo poco fa ha confermato questa posizione, andando contro la posizione quasi ottusa della Germania e mostrando la via d’uscita migliore per salvare il capitalismo europeo dalla distruzione, ma non nell’interesse collettivo o nazionale, quanto piuttosto nell’interesse della stessa classe capitalista.
Nel fare ciò, per prima cosa, dobbiamo notare il tentativo di mostrare la situazione come eccezionale, come un elemento che colpisce tutti allo stesso modo e come uno “shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”. Una frase che però non possiamo accettare: è vero che il privato non è in grado di assorbire lo shock in questione, ma non possiamo assolverlo dalla sua piena responsabilità. Se non fosse stata una crisi sanitaria, qualcos’altro ci avrebbe portato in una situazione di crisi economica e sociale, considerando la totale instabilità del sistema sotto tutti i fronti (leggi qui).
Ma soprattutto, come ha sottolineato in modo preciso Luciano Vasapollo nel suo ultimo intervento (leggi qui), che vi invitiamo caldamente a vedere, ipotizziamo anche che vengano emessi gli eurobonds, ipotizziamo che l’austerità sia messa da parte, ipotizziamo anche che venga utilizzata la pianificazione statale, tutti questi strumenti di politica economica non risolvono comunque la contraddizione più importante del sistema capitalistico: il fatto che i mezzi di produzione e le scelte di investimento siano privati, cosa che li conduce ad essere impiegati per la massimizzazione del profitto piuttosto che per il raggiungimento del benessere sociale della collettività.
Quindi, anche un’eventuale rottura di quelli che erano ritenuti dogmi svolge il solo ruolo di preservare la capacità produttiva e la valorizzazione del capitale privato.
Inoltre, un’eventuale trasformazione da un paradigma ordoliberista ad uno neo-keynesiano non modificherebbe il fatto che l’Unione Europea rappresenta il tentativo della borghesia continentale di fornirsi degli strumenti adeguati alla competizione con gli altri macro-poli.
Liquidati velocemente i sogni statunitensi di “fine della storia”, i passati decenni hanno infatti visto l’emersione di un mondo multi-polare, in cui al fianco degli USA, dominanti ma in continuo declino, sono emersi diversi macro-soggetti in grado di reggere la competizione (con gradi diversi naturalmente) tanto sul piano economico quanto su quello militare.
La RdC ha negli scorsi anni analizzato in maniera approfondita (leggi qui o qui) lo stallo derivante da questa situazione in cui nessun soggetto ha la capacità di imporsi sugli altri, ma allo stesso tempo, viste le difficoltà di valorizzazione a livello globale, si impone una competizione perenne allo scopo di accaparrarsi quel poco di surplus che viene prodotto, con tutto quello che questa competizione comporta: focolai di guerra, conflitti monetari e commerciali, etc.
Non è possibile prevedere al momento l’effetto che la pandemia del Coronavirus e la conseguente crisi sistemica da essa manifestata avrà sull’equilibrio conflittuale mondiale che stava caratterizzando la fase attuale. Quello che possiamo ragionevolmente affermare è che il “nemico principale” dell’umanità continuerà ad essere il meccanismo stesso della competizione inter-imperialista.
Da un lato per il suo potenziale distruttivo in caso di conflitto totale, dall’altro per le pressioni che ogni polo riceve a sopprimere ogni forma di democrazia sostanziale al proprio interno, a comprimere le condizioni delle proprie classi lavoratrici e a sfruttare oltre ogni limite il territorio al fine di recuperare i margini di profitto necessari a tenere testa agli altri poli.
È per questo che i comunisti e più in generale le forze antagoniste europee, se non vogliono trovarsi nella condizione di stampella del proprio imperialismo, non possono che individuare nella UE stessa il nemico principale, e adoperarsi per quanto gli è possibile per incepparne la costruzione, allo stesso tempo accumulando le forze e costruendo la coscienza necessarie per imporre un’alternativa di sistema – alternativa che si fa sempre più attuale nella crisi sistemica in atto.
In questo periodo bisogna stare attenti a quello che si desidera perché lo si potrebbe ottenere, e questo è il rischio che corrono coloro che criticano la UE solamente in ottica economicista senza collocarla all’interno della contraddizione principale.
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