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Caos Nepal, il neoliberismo gestito “da sinistra”

Negli ultimi giorni il Nepal è stato scosso da una violenta ondata di proteste, che ha causato la morte di ventidue persone e costretto il Primo Ministro K. P. Sharma Oli a dimettersi, provocando ulteriori instabilità e un vuoto di potere che dovrebbe essere colmato a breve da una nuova tornata elettorale.

Le immagini che ci arrivano del Paese asiatico mostrano chiaramente da un lato la profonda rabbia sociale delle nuove generazioni, dall’altra l’acerrima violenza poliziesca di fronte a un malcontento che ha radici profonde: i manifestanti hanno dato fuoco al parlamento federale, alla corte suprema, alla residenza del Primo Ministro e a diverse sedi ministeriali a Kathmandu, mentre polizia ed esercito hanno prontamente fatto ricorso a proiettili veri, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per provare a sedare le rivolte, ottenendo tuttavia l’effetto contrario.

Ma mentre i media mainstream di tutto il mondo concentrano l’attenzione sul recente ban del governo ad alcune piattaforme social come causa principale e innesco del malcontento, è bene sottolineare come i problemi siano strutturali e radicati nel tessuto economico nepalese.

Forse un buon punto di partenza per comprendere le ragioni reali e profonde delle proteste sono le ordinanze economiche approvate quest’anno dal governo come misura urgente, emanate durante la pausa parlamentare senza un vero e proprio iter legislativo e convertite in legge solo in un secondo momento (una modalità che non può non ricordare come in Italia il DDL 1660 sia diventato legge nella scorsa primavera).

Gli obiettivi e i metodi principali di questi provvedimenti possono essere così brevemente riassunti:

attrarre capitali esteri in settori prioritari (energia, turismo, infrastrutture) attraverso la semplificazione delle procedure di approvazione e rimpatrio dei profitti;

favorire la crescita delle esportazioni di servizi IT con un obiettivo di tre trilioni di rupie in dieci anni, consentendo alle aziende IT nepalesi di investire all’estero, aprire filiali e rimpatriare legalmente i guadagni;

accelerare la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali e di energia semplificando le procedure per progetti in aree forestali e per l’acquisizione di terreni per progetti di “priorità nazionale”;

ridurre il peso dello Stato sull’economia e privatizzare vari settori (Privatisation Act);

incentivare la produzione per l’esportazione e agevolare il trasferimento di macchinari verso le Zone Economiche Speciali.

Com’è evidente, quindi, in Nepal è in corso a una rapida accelerazione dei processi di liberalizzazione e inserimento dell’economia del Paese nelle catene globali del valore attraverso la semplificazione delle normative per le imprese, l’attrazione di investimenti esteri (il cosiddetto Foreign Direct Investement, ovvero un investimento effettuato da un soggetto economico residente in un Paese in un’impresa situata in un altro Paese con l’obiettivo di stabilire un interesse duraturo e un’influenza significativa nella gestione di quell’impresa) e la promozione delle esportazioni, con effetti immediati sulla distribuzione interna della ricchezza a vantaggio delle élite (inasprita, come se non bastasse, da una galoppante inflazione e da salari esigui, che arrivano a circa 20.000 NPR mensili (120 euro) per le fasce di reddito più basse).

Si consideri, inoltre, che una larga fetta dell’economia nepalese è di tipo informale, con poche regolamentazioni e bassa produttività, il che frena ulteriormente gli investimenti e mantiene i salari bassi.

Ma sull’ovvia dinamica di classe in gioco in questo contesto si innesta un secondo fattore: quello generazionale. Il Nepal ha un tasso di disoccupazione giovanile del 20,8% e, anche tra coloro che lavorano, le carenze strutturali del sistema educativo presenti nel Paese creano perlopiù manodopera poco qualificata e con scarse competenze informatiche, oggi assolutamente necessarie nel mercato del lavoro, quindi facilmente sfruttabile e ricattabile.

A ciò si aggiunge un altro dato estremamente indicativo della condizione delle fasce giovanili nel Paese asiatico: nell’anno fiscale 2024/2025, il Dipartimento per l’Impiego Estero del Nepal ha rilasciato 839.266 permessi di lavoro per l’estero, un numero enorme per una popolazione di 30 milioni di abitanti e che mette in luce l’emigrazione giovanile come problema endemico, con effetti visibili sulla struttura demografica di interi villaggi e sul tessuto economico del Paese (si pensi solo che il 7% della popolazione è all’estero per lavoro e che le rimesse degli emigrati arrivano a costituire il 33% del PIL nazionale).

A questa generazione affamata, in Nepal come in moli altri casi, è per anni stato venduto il sogno di un futuro roseo grazie al capitalismo neoliberista, in cui un tanto acclamato “sviluppo” avrebbe reso possibile la mobilità sociale e il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di nepalesi.

Non solo ciò non è avvenuto, ma anzi oggi la cosiddetta Gen-Z si trova privata di diritti basilari a causa degli ingenti tagli alla spesa pubblica e alla privatizzazione di settori fondamentali come istruzione e sanità.

Le proteste sono quindi diventate il grido di chi non vede un futuro nel proprio Paese, il sintomo più eclatante dello scarto tra aspettative e realtà e la presa di coscienza di una classe politica corrotta, debole e piegata agli interessi dei grandi capitali finanziari mondiali.

Ai giovani nepalesi non basta più indignarsi contro le vite sfarzose dei cosiddetti “nepo kids”, cioè  i figli di persone potenti o famose che beneficiano dell’influenza e della posizione dei genitori per ottenere vantaggi nella carriera e nella vita, che i social media rendono sempre più visibili; oggi chiedono un cambiamento radicale del sistema, che vada oltre il singolo esecutivo, per abbattere le dinamiche di potere strutturalmente corrotte e oligarchiche che il fenomeno dei “nepo kids” ha contribuito a smascherare.

Non si tratta, quindi, solo di un movimento contro la limitazione delle libertà di parola – che è la punta dell’iceberg – ma dell’emersione di contraddizioni economiche e sociali finora nascoste dal sogno del progresso. Si tratta di una rabbia profonda e radicata, che apre scenari imprevedibili.

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