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India. Nel Ladakh esplode la protesta delle nuove generazioni

Lo scorso 10 settembre il noto attivista climatico e volto di molte proteste per lo status costituzionale speciale del Ladakh e la tutela ambientale, Sonam Wangchuk, ha iniziato uno sciopero della fame di trentacinque giorni, dando il via all’ultima di una lunga serie di proteste pacifiche che Wangchuk ha guidato negli ultimi anni.

Dopo quasi quindici giorni di manifestazioni non violente, tuttavia, il 24 settembre sono scoppiati violentissimi scontri tra manifestanti – perlopiù giovani, la cosiddetta Gen Z – e forze di sicurezza indiane, durante i quali i primi hanno incendiato la sede locale del BJP (il partito nazionalista al governo, guidato da Narendra Modi) e i secondi hanno reagito sparando sulla folla, provocando la morte di quattro persone e il ferimento di altre novanta.

A ciò è seguita l’istituzione di un coprifuoco permanente a Leh (la capitale del Ladakh) e in altre città e l’arresto di almeno cinquanta manifestanti, tra cui venerdì è toccato anche a Sonam Wangchuk – che pure aveva esortato i giovani alla calma e all’uso di forme di protesta pacifiche.

Ma per capire le ragioni reali di quanto successo occorre fare un passo indietro al 2019, quando il Ladakh venne creato a partire dalla divisione del Jammu e Kashmir – territorio da sempre al centro di profondi conflitti con il Pakistan da un lato e la Cina dall’altro – e posto sotto il diretto controllo del governo centrale, perdendo la seppur solo formale autonomia fino a quel momento garantita dall’articolo 370 della Costituzione ed espressa da un’assemblea legislativa locale.

Infatti, quello che dal BJP fu celebrato come un importante passo verso l’integrazione nazionale, fu percepito in Kashmir e Ladakh come un atto illegale che alimentò una forte rabbia e un senso di ingiustizia profondo, aumentando il senso di esclusione delle comunità e la preoccupazione per la perdita di controllo sul proprio territorio, ora maggiormente esposto al violento e massiccio accaparramento di risorse naturali (assolutamente abbondanti nella regione himalayana) e terre in nome di un presunto “sviluppo” da parte del governo e delle compagnie private a esso affiliate.

Da allora in Ladakh i due principali attori politici – il Leh Apex Body (LAB, espressione della comunità buddhista Leh) e il Kargil Democratic Alliance (KDA, espressione dei Karghil musulmani) – hanno portato avanti un movimento di protesta coordinato che chiede maggiori tutele costituzionali e pone a centro temi ambientali fondamentali in un ecosistema fortemente danneggiato dagli effetti del riscaldamento climatico globale – che sta causando lo scioglimento accelerato dei ghiacciai, da cui dipende l’approvvigionamento idrico, innescando al tempo stesso un ciclo di inondazioni e siccità e condizioni climatiche estreme – e dall’estrattivismo violento, soprattutto di litio e uranio.

I due temi – quello ambientale e quello concernente l’autonomia politica – che potrebbero a prima vista sembrare due istanze sconnesse, hanno dunque come comune denominatore la volontà delle comunità locali, con una cultura millenaria di interazione e adattamento all’ambiente, di gestire le proprie risorse naturali, in un’ottica in cui la chiave per la sopravvivenza umana e non umana è l’autonomia decisionale (l’80-90 per cento della popolazione in Ladakh è costituito da comunità indigene, ovvero adivasi nella terminologia in uso in India).

In questo contesto assume particolare rilievo la richiesta di riconoscimento del Ladakh come parte della Sixth Schedule, un insieme di disposizioni speciali garantite costituzionalmente dagli articoli Articoli 244(2) e 275(1) che forniscono autonomia amministrativa e protezione alle aree indigene negli stati del nord-est dell’India (Assam, Meghalaya, Tripura, Mizoram, Manipur, Nagaland). Il Sixth Schedule prevede principalmente la creazione di Consigli Autonomi (Autonomous District Councils – ADCs) per le aree designate con poteri legislativi, giudiziari e amministrativi in materie specifiche, tra cui la gestione delle foreste (eccetto le foreste riservate), l’agricoltura, i diritti fondiari e di trasferimento di terreni, la regolamentazione del commercio e delle attività commerciali, l’amministrazione della giustizia secondo le consuetudini locali.  

L’inclusione nel Sixth Schedule garantirebbe, quindi, la protezione della terra e delle risorse naturali, impedendo l’acquisizione di terreni da parte di compagnie estrattifere senza il consenso delle comunità locali; l’ottenimento di una maggiore autonomia decisionale, consentendo ai rappresentanti eletti locali di legiferare su questioni chiave come l’ambiente, la cultura e lo sviluppo; la preservazione dell’identità culturale di comunità che vivono sulla propria pelle un crescente processo di induizzazione da parte della propaganda nazionalista hindu del partito di Modi.

In questo senso, dunque, la terra e l’ecosistema diventano il fulcro di uno scontro con lo Stato centrale che va al di là delle istanze contingenti, delineando uno scenario in cui la rivendicazione di autonomia e la tutela dell’ambiente chiamano in causa modi altri – profondamente politici – attraverso cui le comunità indigene intessono relazioni con il territorio che li circonda.

Vi è poi un ultimo dato, ormai diventato leit motiv delle proteste nel subcontinente (in Bangladesh l’anno scorso e in Nepal poche settimane fa): la forte componente giovanile dei movimenti.

Nel caso del Ladakh il rifermento agli altri due contesti è stato da subito esplicito e voluto, delineando una continuità che ci parla degli effetti vissuti da un’intera generazione di una distribuzione della ricchezza estremamente diseguale, dell’accaparramento rapace delle risorse naturali ed economiche, della stagnazione politica e della corruzione nel Asia Meridionale.

Sonam Wangchuk, l’attivista climatico a capo dello sciopero della fame, ha descritto gli eventi come una “rivoluzione della Gen Z” e un’ “esplosione della giovane generazione” e attribuito la violenza agli anni di frustrazione accumulata, affermando che i giovani sentono che i loro metodi pacifici vengono sistematicamente ignorati dalle istituzioni.  

Sinteticamente si può leggere il ruolo della Gen Z nelle recenti proteste in Ladakh come quello di un catalizzatore, che ha trasformato un movimento pacifico di lunga data in uno scontro violento (ma forse necessario) guidato da frustrazioni economiche e politiche radicate, segnando un’escalation significativa nella lotta della regione per una maggiore autonomia.

Oggi più che mai le giovani e i giovani del cosiddetto Sud Globale chiedono un futuro di giustizia sociale ed economica e mettono il potere istituzionale davanti alle loro responsabilità politiche per decenni di politiche illiberali.

Sta a noi, giovani generazioni del cosiddetto Nord Globale, accogliere il loro appello e costruire insieme un futuro più giusto.

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