Daniel Jadue, ex sindaco del comune popolare di Recoleta, a Santiago del Cile, è noto per aver creato le “Farmacie Popolari”, che hanno garantito l’accesso ai medicinali a prezzi equi in un Paese segnato dal modello neoliberale ereditato da Pinochet. Oggi è agli arresti domiciliari, accusato di corruzione in un processo che molti osservatori considerano un caso emblematico di “lawfare”.
Quando il Diritto sopravvive, ma la civiltà perde il suo orientamento
«La giustizia non è l’interesse del più forte, ma il bene dell’anima.»
— Platone, Repubblica, I, 354c
Più che un insieme di leggi o sentenze, la giustizia è il battito morale che sostiene la vita in comune. Quando questo battito si indebolisce, il Diritto sopravvive, ma la civiltà perde il suo orientamento.Il caso di Daniel Jadue — ex sindaco di Recoleta, Cile, oggi privato della libertà in attesa di giudizio per accuse di corruzione che molti considerano parte di una strategia di lawfare — ci obbliga a chiederci che cosa resta del senso della giustizia quando la legge smette di proteggerla.
Nel primo libro della Repubblica, Trasimaco irrompe nel dialogo con un’affermazione che ancora oggi suona come una sfida:
la giustizia — dice — non è altro che l’interesse del più forte.
Per lui, le leggi non nascono dall’amore per la verità, ma dal potere: chi domina stabilisce ciò che è giusto e ciò che non lo è. Socrate, con la sua ironia serena, risponde che se la giustizia fosse soltanto la convenienza dei potenti, nulla impedirebbe all’ingiusto di essere più saggio e più felice del giusto — una conclusione che ripugna al senso comune e alla coscienza morale.
Da quel momento, tutta la filosofia è rimasta segnata dalla domanda che Socrate lanciò al mondo: la giustizia è uno strumento del potere, o il limite che lo umanizza?
Questa domanda, che attraversa i secoli, torna a risuonare oggi con forza in tutto il mondo. Perché la giustizia, quando si separa dalla verità e si confonde con l’utilità politica, smette di essere giustizia. Il Diritto sopravvive, ma la civiltà perde il suo orientamento.
Ci sono parole che, a forza di essere ripetute, rischiano di svuotarsi. “Giustizia” è una di queste. La invochiamo per giustificare leggi, punizioni, condanne — persino guerre. Eppure, forse dovremmo prima fermarci nel silenzio e domandarci: che cos’è, in realtà, la giustizia?
La giustizia non è un’istituzione: è una tensione etica.
Non abita soltanto nei tribunali, ma nel cuore di chi si indigna di fronte alla sofferenza inutile, all’ingiustizia normalizzata o alla menzogna trasformata in regola. Dall’antichità fu concepita come armonia: dikaiosyné, in greco, significa la giusta misura — il punto in cui ogni parte trova il proprio posto senza schiacciare le altre.
Platone diceva che la città giusta è quella in cui ciascuno compie ciò che gli è proprio; Aristotele la considerava la virtù intera, sintesi di tutte le altre. Ma il tempo è passato, e il Diritto, nato per proteggere la giustizia, ha cominciato a credere di poterla sostituire. Si è diffusa l’illusione che basti rispettare il rito per essere giusti, che basti applicare la lettera della legge per onorarne lo spirito. Ed è precisamente in questo intervallo — tra lo spirito e la lettera — che l’ingiustizia trova spesso la sua dimora.
Il caso di Daniel Jadue è uno specchio scomodo di questa distanza. Un uomo che, come sindaco di Recoleta, ha reso concreta l’idea di giustizia sociale con progetti come le Farmacie Popolari e ha osato mettere in discussione il potere economico che trasforma i diritti in merci.
In un Paese dove i prezzi dei medicinali sono tra i più alti al mondo e dove la logica del “mercato” continua a dominare i diritti sociali, è oggi messo alla prova da un sistema che sembra aver dimenticato che il giudizio su uno è anche riflesso dell’anima di tutti.
Quando la serenità cede alla convenienza e la prudenza si piega alla fretta, ciò che si perde non è solo un diritto individuale, ma il senso stesso della giustizia come misura dell’umano.
La vera giustizia non ha partito.
Sorge nello spazio fra la legge e la compassione, fra il dovere e l’amore, fra il potere e la coscienza.
Non cerca di vendicare il male, ma di impedire che il male si perpetui in nome del bene.
Essere giusti è più difficile che essere legalisti, perché la giustizia esige coraggio, discernimento e umiltà — virtù rare nei tempi della polarizzazione.
Nietzsche suggeriva che la giustizia comincia quando finisce il risentimento; Hannah Arendt ricordava che il perdono è l’unica forza capace di interrompere il ciclo della violenza. Forse avevano entrambi ragione: la giustizia non è punire l’altro, ma restaurare la possibilità di convivere.
Quando però il potere giudiziario diventa strumento di lotta politica, quando il processo si trasforma in un’arma e la sentenza in un trofeo, non siamo più di fronte alla giustizia, ma al suo simulacro — al lawfare, quella guerra combattuta sotto le spoglie della legge.
Questo è il pericolo che circonda il caso Jadue — e in ogni luogo dove la giustizia si piega al potere. Non si tratta solo di un errore giuridico, ma di una erosione spirituale: l’erosione del senso della giustizia come valore universale.
Ogni volta che il potere punitivo viene usato per eliminare la differenza, la democrazia si restringe, e il diritto smette di essere ponte per diventare muro.
La giustizia, nel suo senso più alto, è l’opposto della paura.
È la fiducia che la verità possa emergere senza coercizione, che la dignità umana valga più di qualsiasi calcolo elettorale, e che nessuno — assolutamente nessuno — debba essere ridotto al ruolo di esempio sacrificale.
Parlare di giustizia oggi è un atto di resistenza.
Resistere alla fretta del giudizio.
Resistere al piacere di condannare.
Resistere all’oblio di ciò che siamo capaci di fare in nome dell’“ordine.”
Che il caso di Daniel Jadue ci serva da specchio, non da pretesto.
Che ci ricordi che il destino di una democrazia dipende meno dalle leggi che approva e più da come le applica.
Che la giustizia non sia la maschera della vendetta, ma l’espressione della verità.
Alla fine, essere giusti significa non tradire l’umanità dell’altro — anche quando l’altro pensa, crede o vota in modo diverso da noi.
E se la giustizia perde questo senso, non rimarrà che l’apparenza: tribunali pieni, titoli rumorosi e un vuoto sempre più grande là dove un tempo abitava ciò che chiamavamo coscienza.
*Anjuli Tostes è giurista brasiliana, dottoranda in Diritto ed Economia presso l’Università di Lisbona e ricercatrice sul lawfare e la democrazia in America Latina. È fondatrice dell’Associazione Brasiliana di Giuristi per la Democrazia e dell’Associazione di Giuristi per la Democrazia – Cile.
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