Qualsiasi trattativa di pace che si rispetti è lunga, condotta sottotraccia e con slogan propagandistici in superficie, dolorosa per tutti perché nel frattempo la guerra continua.
Chi deve affidarsi alle indiscrezioni lasciate trapelare dagli addetti ai lavori – al 99% propaganda – può solo cogliere eventuali modifiche nella “narrazione” dominante che accompagna le trattative da questo lato della barricata. Ossia in campo euro-atlantico e secondo le linee di faglia ormai conclamate tra Usa trumpiani e “volenterosi” del Vecchio Continente.
Seguendo questo criterio abbiamo potuto cogliere lo spostamento passo dopo passo da una posizione totalmente contraria a qualunque soluzione realistica della guerra verso una che prende atto della situazione sul campo e lascia nel cestino gran parte delle sparate retoriche che invece ancora abitano i media mainstream europei.
Il campo di gara è presto disegnato. Usa e Russia hanno raggiunto un’intesa di massima solo in parte resa nota. I “volenterosi” – e a seguire, spesso malvolentieri, il resto dell’Unione Europea – sono contrari a qualsiasi conclusione diversa dalla sconfitta della Russia. La junta di Kiev, sedotta e abbandonata da chi la guerra l’ha voluta (gli Stati Uniti in bersione “dem”), erosa dagli scandali e dalle ruberie, alle prese con l’esaurimento della “carne da cannone” da inviare al fronte, deve lasciare gradualmente da parte i sogni di vittoria e recupero dei territori già persi militarmente.
Gradualmente e ricercando il consenso interno alle bande che contano – neonazisti in testa – per non correre il rischio di trasformare una trattativa di pace in una guerra interna. Sullo sfondo resta il popolo ucraino, cui è stato chiesto un sacrificio senza pari e senza alcun premio possibile alle viste.
Stabilito questo, la lunga riunione di ieri all’hotel Adlon di Berlino con gli inviati Usa Steve Witkoff e Jared Kushner, sembra aver segnato un ulteriore ma chiaro passo avanti di Zelenskij verso l’accettazione di aver perso definitivamente i territori al di là della linea del fronte. Non che sia una cosa strana… In qualsiasi guerra è difficile che ci siano sul piano diplomatico significativi scostamenti dalla situazione sul terreno. Qualche scambio, sì, grosse differenze mai.
Però è significativo che il focus sui territori si sia definitivamente spostato dal “rivogliamo tutto” a “congeliamo il fronte”. Sul punto, rispetto alla richiesta russa, la differenza è relativamente minima. La Crimea è fuori discussione dal 2014. Il Lugansk è totalmente in mano russa, il Donetsk ben oltre il 70%, così come negli altri oblast già inseriti nella Costituzione di Mosca (Kherson, Zaporizhzhia).
La discussione interna al campo occidentale riguarda ormai l’eventuale definizione del “cuscinetto di sicurezza”, la zona demilitarizzata che dovrebbe separare i sue contendenti. Se deve essere ritagliata togliendola soltanto alla parte che Kiev controlla oppure se fare fifty-fifty con la Russia.
Lo spostamento simbolico più significativo sta però nella rinuncia ucraina all’ingresso nella Nato, punto decisivo per definire un vero trattato di pace sul lungo periodo e non solo una “tregua” che si romperebbe al primo movimento non ben ragionato. In compenso Zelenskij chiede “garanzie di sicurezza bilaterali tra l’Ucraina e gli Stati Uniti, vale a dire garanzie sul modello dell’Articolo 5, così come di garanzie di sicurezza per noi da parte dei nostri partner europei e di altri Paesi come il Canada, il Giappone e altri“.
Chiaro che il ruolo decisivo – per copertura satellitare e nucleare – è in mano agli Usa. Se il Congresso approvasse l’accordo, Kiev sarebbe considerato quasi come un paese Nato pur senza esserlo, almeno sul piano difensivo (non potrebbero però essere schierate truppe e missili occidentali né condurre manovre congiunte sul suo territorio). Bisognerà vedere se Mosca può accettare una soluzione del genere, che all’evidenza può nascondere cento trappole, ma comunque c’è l’abbandono di un punto prima considerato “irrinunciabile”.
Sarebbero buone notizie se il “terzo escluso” – l’Unione Europea e i “volenterosi” double face (stare al tavolo, ma per farlo saltare) non stessero ancora seminando ostacoli rilevanti, a partire dalla mossa azzardatissima del congelamento degli asset russi depositati in Europa quando Putin era un cliente come qualsiasi altro.
Sul punto la Banca centrale russa ha aperto una causa presso il Tribunale arbitrale di Mosca, chiedendo al fondo belga Euroclear un risarcimento di circa 200 miliardi di euro per quel congelamento deciso dalla Ue.
E’ da ricordare che per volontà dei gruppi multinazionali più grandi, in epoca di neoliberismo e “globalizzazione”, tutte le contese legali tra grandi aziende e singoli Stati sono state trasferite da tribunali internazionali a “collegi arbitrali” totalmente privati, spesso composti dagli stessi “avvocati d’affari” che avevano scritto le regole.
Attendersi in questi luoghi oscuri una sentenza sfavorevole ai soggetti privati (gli asset russi sono di questo tipo, non proprietà della Federazione Russa) è un pio desiderio. Dunque si apre una partita che potrebbe presto costringere il Belgio – poverino – a dissanguarsi per aver subito una decisione europea cui era ed è disperatamente contrario.
Senza nemmeno aggiungere la crisi di “affidabilità” che si apre per tutti gli istituti finanziari europei, presso i quali sono depositati asset provenienti da ben 90 paesi diversi. Secondo diversi esperti, per esempio, diversi paesi arabi avrebbero già cominciato a ritirare quei fondo trasferendoli verso porti più sicuri.
Vedremo presto gli sviluppi, ma a noi sembra chiaro che potremmo presto trovarci in una situazione in cui Kiev accetta di essere rappresentata da Trump nella trattativa diretta con Mosca e “l’Europa” rimane con tutti i cerini in mano: pagare la ricostruzione dell’Ucraina per favorire il suo ingresso nell’Unione, perdere migliaia di miliardi di capitali esteri, investire in riarmo anziché in impegni produttivi altre centinaia di miliardi sottraendoli alla spesa sociale e dunque ai consumi interni…
Con tutte le eventuali conseguenze sociali del caso.
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