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Italia. La precarietà come condanna. Reddito negato

I contratti part time stanno ormai dilagando nel mercato del lavoro e non certo per libera scelta delle lavoratrici e dei lavoratori. Secondo il centro studi Datagiovani, nel 2010 al 31% dei lavoratori al primo impiego sono stati offerti solo contratti a tempo parziale. Indicativo che anche nell’industria, dove il part time è sempre stato utilizzato meno per via delle rigidità produttive, il part time è diventato il 43% nele nuove assunzioni. In pratica quasi 3,5 milioni di lavoratori in Italia sono a tempo parziale (e dunque anche a salario e contributi previdenziali parziali), secondo il rapporto Datagiovani, ben 1,7 milioni, cioè la metà, non ha avuto alternative ed è stato costretto ad accettare lavori part time perchè non c’era lavoro a tempo pieno.

Di questo esercito di precari ben il 78% sono donne. Uno su quattro è giovane, due su tre non hanno trovato lavoro a tempo pieno. In pratica si tratta di sottoccupazione riservata ai settori sociali più deboli. Ma la condanna del part time è solo una delle mille sfaccettature della precarietà.

Domani a Roma scenderanno in piazza con una sorta di street parade i precari organizzatisi nella rete “Il nostro momento è adesso” con una manifestazione che partirà alle 15.00 da piazza della Repubblica e terminerà al Colosseo.

L’iniziativa del 9 aprile è nata in ambiti molto vicini al Pd, Cgil, Sel nel quadro delle manifestazioni “tematiche” contro il governo (le donne, la costituzione, la scuola ed ora la precarietà) ma via via si è estesa anche alle reti di precari più “di movimento”, i quali ritengono di avere una opportunità di poter parlare alla loro gente in una occasione/evento come questa. Ci auguriamo che i fatti gli diano ragione. La realtà gliela dà sicuramente, la sua rappresentazione forse un po’ meno.

 

Si apprende intanto che la Regione ha detto “no” al reddito minimo, non ci sono i soldi. Per garantire 300 euro ai giovani in cerca di lavoro servirebbero 60 milioni. I conti: La spesa per il sociale in Emilia-Romagna nel 2011 ammonta a 27 milioni di euro. Garantire il reddito minimo a tutti i giovani in cerca di un lavoro non sembra al momento alla portata della Regione Emilia-Romagna. A farlo capire è Teresa Marzocchi *, assessore regionale alle Politiche sociali, nel corso del seminario “Essere poveri a Bologna” organizzato dall’Istituto Gramsci. «Siamo l’unico Stato, insieme a un Paese dell’est europeo, che non ha un reddito minimo per l’inserimento al lavoro – sottolinea Marzocchi – ma in questo momento non solo non possiamo permettercelo: non possiamo neanche pensarlo». E la Regione Emilia-Romagna, nonostante sia una delle più in salute in Italia, è sulla stessa barca. «Abbiamo fatto un calcolo – spiega l’assessore – per dare un minimo, 300 euro, a tutti i nostri giovani che hanno terminato gli studi e sono in cerca di un lavoro, servirebbe tutto il bilancio sociale della Regione, ovvero 60 milioni di euro». Dunque, sembra dire Marzocchi, al momento pare una misura inapplicabile. Soprattutto con le previsioni fosche sul prossimo futuro. «Il prossimo anno non riusciremo a coprire i tagli» ai fondi sociali, avverte l’assessore regionale. Fino al 2010 la Regione è riuscita a mantenere la spesa per la programmazione sociale intorno agli 82 milioni di euro, nonostante i trasferimenti dallo Stato siano scesi da 52 milioni nel 2007 a 27 milioni l’anno scorso. «Io sono stata molto protetta dai tagli – ammette Marzocchi – ma nonostante questo abbiamo comunque un ritorno di grande insoddisfazione da parte dei cittadini», dato che «anche i Comuni hanno dovuto tagliare sul welfare». E nel 2011 sarà peggio, perchè «dallo Stato finora ci garantiscono solo 17 milioni », avverte. Quindi la spesa per il sociale nel 2011 (ma i dati definitivi arriveranno l’anno prossimo) ammonta a 27 milioni di euro contando anche i fondi della Regione. «Ci siamo già scordati della manovra – afferma Marzocchi – anche se ora combattiamo contro i suoi effetti». Per questo, «serve un atteggiamento diverso nei territori: la situazione è ancora gravissima». Secondo l’assessore regionale, dunque, «siamo costretti a una riflessione» sui servizi sociali, anche se «il nostro sistema è vincente». Per Marzocchi bisognerà muoversi «in due direzioni»: la prima è pensare di «fare profitto mentre si fa welfare. È un mito che i servizi sociali non si comprano – afferma l’assessore regionale – sono e restano un diritto, ma devono avere la stessa elasticità che c’è in altri settori». Per questo bisogna anche valutare «la produttività che si può generare » dal welfare. La seconda direzione ha come punto d’arrivo la creazione di un “sistema di solidarietà sociale di cittadinanza spiega Marzocchi – non potremo mai pensare di rispondere a tutti i servizi domiciliari. Non parlo di delegare ai cittadini, perchè si facciano  il loro welfare da soli. Ma un sistema di solidarietà è strategico e sta accanto alle istituzioni ». L’assessore regionale fa riferimento esplicito ai “voucher ”, che però «non saranno voucher di solitudini – garantisce Marzocchi – ma di comunità, dentro un sistema pubblico. Non sarà dare dei soldi al cittadino perchè faccia come vuole», assicura. Insomma anche in salsa emiliana sono previsti nuovi tagli al welfare e ai diritti.

 

*La Marzocchi ha fondato una cooperativa sociale che gestisce servizi e strutture per persone in situazione di disagio e difficoltà sociale. E’ fondatrice anche di altre associazioni e imprese sociali. La semi-privatizzazione dei servizi sociali bolognesi è stata iniziata da un dirigente PD, tessera CGIL, divenuto consulente della Regione una volta pensionato.

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