Difficile restituire in un solo “pezzo” le oltre 400 pagine del rapporto annuale pubblicato oggi dall’Istat. Si rischia di fare una scelta molto soggettiva e parziale tra le molte notizie, immagini, riflessione che inevitabilmente una simile massa di dati trascina con sé.
Ma una realtà sbatte immediatamente in faccia e spiega molto dell’attuale clima “mentale” de paese:
Circa un quarto degli italiani (il 24,7% della popolazione, più o meno 15 milioni) “sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale”. Si tratta di un valore leggermente superiore alla media Ue che è del 23,1%, il che certifica una situazione sociale di forte disagio che le politiche di “rigore” continuano ad aggravare.
Il rischio povertà riguarda circa 7,5 milioni di individui (12,5% della popolazione). 1,7 milioni di persone (2,9%) si trovano in condizione di “grave deprivazione”, mentre 1,8 milioni (3%) lavora solo saltuariamente (“intensità di lavoro molto bassa”). Si trovano in quest’ultima condizione l’8,8% delle persone con meno di 60 anni (6,6% contro il valore medio del 9%). Solo l’1% della popolazione (circa 611 mila individui) vive in una famiglia contemporaneamente a rischio di povertà, deprivata e a intensità di lavoro molto bassa. Nelle regioni meridionali, con solo un terzo della popolazione nazionale, vive il 57% delle persone a rischio povertà (8,5 milioni) e il 77% di quelle che convivono sia col rischio, sia con la deprivazione sia con intensità di lavoro molto bassa (469 mila).
La crisi ha accentuale queste tendenze, anche perché si è fatta sentire in modo molto diseguale. “L’impatto della crisi sull’occupazione è stato pesante. Nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità”. I più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d’età in cui si registrano 501 mila occupati in meno. Si tratta di una conseguenza diretta della scelta criminale in favore della precarietà dei rapporti di lavoro. Ci si è sciacquati molto la bocca nel decennio scorso e anche prima – con la “crescita dell’occupazione” che sarebbe derivata dalla possibilità, per le imprese, di assumere gente con contratti a termine o altre tipologie precarie. E in effetti, finché c’è stata una crescita economica anche minima, l’occupazione (precaria) è aumentata. Ma chiunque ragioni un attimo sa che questo tipo di “occupazione agevolata” costituisce una sorta di ammortizzatore per i profitti e una condanna per i salari, costretti a restare bassi. Non appena la crisi si fa sentire, i primi posti a saltare sono proprio quelli precari, spesso riguardanti posizioni lavorative a competenze limitate.
Per la condizione giovanile questa sta diventando una tragedia senza soluzione. Nel 2010 erano poco oltre 2,1 milioni (134 mila in più rispetto a un anno prima, il 6,8% in più), i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. Si tratta del 22,1% degli under 30, percentuale in aumento rispetto al 20,5% del 2009. La cosiddetta generazione NEET (Not in education, employment or training). L’incremento riguarda soprattutto i giovani del Nord Est, gli uomini e i diplomati, ma anche gli stranieri (310mila nel 2010).
“La crisi ha insomma portato indietro le lancette della crescita di ben 35 trimestri, quasi dieci anni” e l’attuale “moderata ripresa” ne ha fatti recuperare appena 13. Nel decennio 2001-2010 l’Italia “ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i Paesi dell’Unione europea, con un tasso medio annuo di appena lo 0,2% contro l’1,3% registrato dall’Ue e l’1,1% dell’Uem” (ovvero i paesi che adottano l’euro).
L’Istat sottolinea in particolare “un graduale scollamento della performance italiana rispetto alle altre maggiori economie dell’Unione che è divenuto più evidente nella fase di ripresa 2006-2007 e si è aggravato con la crisi”. Inoltre, “per la sua vocazione produttiva e gli scarsi margini di manovra della finanza pubblica il nostro Paese ha subito la crisi in maniera comparativamente forte e stentato nella successiva ripresa: nel 2010 il livello del pil è risultato ancora inferiore di 5,3 punti percentuali rispetto a quello raggiunto nel 2007, mentre il divario da colmare è del 3,7% nel Regno Unito, del 3% in Spagna e di appena lo 0,8% e lo 0,3% in Francia e in Germania”. Tradotto in conseguenze produttive, “il numero delle imprese si è ridotto di 43 mila unità”, lasciando senza lavoro “363mila addetti”.
Il problema fondamentale è il forte squilibrio della crescita italiana, dove la domanda intera è praticamente ferma da anni (ma se i salari e l’occupazione diminuiscono non può accadere altro); “il principale fattore trainante per la ripresa è stata la domanda estera, che comunque era anche stata la componente che aveva guidato la caduta nel corso della recessione”. Tuttavia, si legge nel volume, “dopo aver agito da traino nella fase di recupero dell’attività industriale, la componente estera della domanda ha però assunto nel periodo più recente un ruolo frenante: il fatturato realizzato sui mercato esteri, che era in fortissima crescita sino al terzo trimestre, ha registrato nel quarto trimestre del 2010 e ancora all’inizio del 2011 un’evoluzione assai modesta, mentre quello relativo alla componente nazionale ha mantenuto una dinamica più moderata, ma persistentemente positiva”.
Guardando sempre all’estero, i tecnici dell’Istat evidenziano che “le piccole e medie imprese hanno reagito meglio sia nella fase recessiva che, e sopratutto, in quella espansiva, mostrando la capacità di riposizionarsi sui mercati internazionali. Mentre le grandi imprese rappresentano il segmento più in difficoltà specialmente nei mercati europei”.
Crolla, sotto la pressione della crisi, anche un pilastro consolidato del costume italiano. Per salvaguardare il livello dei consumi, le famiglie hanno progressivamente eroso il loro tasso di risparmio, “sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell’eurozona”. L’Istat sottolinea che lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1%, “il valore più basso dal 1990”.
Sono circa 800 mila le donne licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una gravidanza. Si tratta dell’8,7% delle madri che lavorano o che hanno lavorato in passato e la percentuale sale al 13,1% per le donne giovani nate dopo il 1973. In generale, sottolinea l’Istat, il 15% delle donne smette di lavorare per la nascita di un figlio.
Va anche peggio per la salute. Quasi due milioni di italiani con problemi sanitari non sono raggiunti da alcun tipo di sostegno. Si tratta di persone che vivono sole o con altre persone con limitazioni, o in un contesto familiare parzialmente o del tutto incapace di rispondere ai loro bisogni. Il 37,6% di queste persone è residente nel Mezzogiorno. Considerato il mix di più fonti di aiuti (informale, pubblico e privato) sono state sostenute nel 2009 il 27,7% delle famiglie (erano il 16,9 nel 2003), con un valore massimo nel nord-est (32,2%) e minimo nel Mezzogiorno (26,1%) dove però c’é più bisogno. L’Istat rileva più aiuti dove le famiglie sono già sostenute. Nel nord-est, ad esempio, il 19,7% delle famiglie con almeno una persona con più di 80 anni ha ricevuto cura e assistenza grazie al sostegno congiunto di più tipi di operatori o servizi; nelle altre zone i valori sono più bassi, intorno al 13,5%.
La rete di aiuto e cura informale in Italia si regge notoriamente sulle donne. Sono loro a svolgere i due terzi del totale delle ore impegnate, ben 2,1 miliardi l’anno. Sono aumentati soprattutto gli aiuti gratuiti fra persone che non coabitano (care giver): erano il 20,8% nel 1983, sono stati il 26,8% nel 2009. Diminuiscono, però, le famiglie aiutate (dal 23,2% al 16,9%), soprattutto quelle con anziani (dal 28,9% al 16,7%). L’Istat lancia un allarme: la catena di solidarietà femminile fra madri e figlie su cui si fondava la rete di aiuti informale “rischia di spezzarsi” perché le donne sono sempre più sovraccariche di lavoro all’interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra la cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti.
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