Diciamola semplice: la ricchezza “delle famiglie italiane” si è ridotta di oltre il 5% in un solo anno, il 2013. E questo senza neppure calcolare il sostanziale blocco dei salari per chi un lavoro ce l’ha o le drammatiche cadute di reddito per chi il posto l’ha perso (o è in cassa integrazione), o addirittura non l’ha mai trovato.
Com’è avvenuto? Con banale deprezzamento degli immobili conseguente al fatto che ben pochi sono coloro che oggi dispongono della liquidità necesaria ad acquistare una casa. Nel terzo trimestre 2013 – ha spiegato ieri l’Istat, pubblicando il suo consueto rapporto – i prezzi delle abitazioni acquistate dalle famiglie sia per fini abitativi sia per investimento registra un calo dell’1,2% rispetto al trimestre precedente e del 5,3% su base annua. La flessione congiunturale nel terzo trimestre è l’ottava consecutiva. Traduzione: i prezzi stanno cadendo da due anni precisi e la velocità di caduta va aumentando.
La flessione congiunturale registrata nel terzo trimestre è infatti l’ottava consecutiva ed è di ampiezza doppia rispetto a quella rilevata nel secondo (-1,2% rispetto a -0,6%). Al calo congiunturale (sul trimestre, insomma) contribuiscono soprattutto le diminuzioni dei prezzi delle abitazioni esistenti (-1,3%), mentre per le case nuove si registra un -0,5%.
La tendenza è la stessa su base annua con la diminuzione dei prezzi delle abitazioni esistenti del 6,8% e un calo per quelle di nuova costruzione del 2,0%. In un quadro di marcata diminuzione dei prezzi che tuttora perdura, la riduzione dell’ampiezza della flessione tendenziale si registra sia per i prezzi delle abitazioni esistenti (-6,8%, da -7,6% del secondo e 8,1% del primo trimestre) sia per i prezzi delle abitazioni nuove (-2,0%, da -2,2% del secondo trimestre).
In media, nei primi tre trimestri dell’anno in corso, i prezzi delle abitazioni diminuiscono del 5,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sintesi di un calo dell’1,8% dei prezzi delle abitazioni nuove e del 7,5% dei prezzi di quelle esistenti.
Che vuol dire? Che una parte consistente della ricchezza “patrimoniale” è svaporata, come un investimento azionario o obbligazionario che va male. La casa c’è ancora, è sempre quella (non parliamo qui della tassazione, che è argomento complesso da trattare separatamente), ma vale sempre meno. Per chi ha sempre considerato “il mattone” come il più sicuro tra i “beni rifugio” è una mazzata destabilizzante l’identità stessa.
Il “sentirsi benestante”, e quindi la “percezione di sicurezza”, infatti, dipende da un mix di fattori reddituali: il lavoro (e sappiamo quanto stia pagando alla crisi e alle politiche economiche della Troika), i servizi pubblici a prezzo contenuto o semi-gratuiti (in via di estinzione), gli eventuali investimenti mobiliari (azioni, obbligazioni, fondi comuni di investimento, polizze vita, ecc) e infine l’immobiliare. Ma è soprattutto quest’ultimo “investimento” ad aver rapresentato – nel dopoguerra – un fattore potente di “stabilità”, anche sul piano conflittuale.
Se infatti la famosa massima marxiana recita “proletari di tutto il mondo unitevi! non avete da perdere che le vostre catene”, nell’Italia fin qui maturata andiamo a scoprire che quasi l’80% della popolazione – possedendo, anche se ipotecata per il mutuo, la casa di abitazione – in realtà non si “sente” un proletario (“ricco” solo di figli, letteralmente), ma un “proprietario”. Per di più con aspettative crescenti quanto al valore del suo patrimonio immobiliare.
La notizia di questi anni (due di seguito) è: questo patrmonio ve lo stanno togliendo. Lentamente, dolcemente, attraverso “il mercato”…
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