«È singolare che la Confindustria, dopo aver condiviso e sostenuto le scelte di questo governo ora le critichi. La seconda cosa che vorrei dire alla presidente Marcegaglia è che la linea di attaccare i contratti nazionali e cancellare la contrattazione non li porta fuori dalla crisi ma fuori dal mercato. Non affrontano i nodi di fondo della crisi che richiederebbero un’assunzione di responsabilità da parte loro, investendo sull’innovazione, sulla ricerca, su una riconversione industriale che metta al centro la qualità e il rispetto del lavoro e la qualità e la compatibilità sociale e ambientale del prodotto». Il «signornò» Maurizio Landini risponde alle accuse di Emma Marcegaglia alla Fiom e alle proposte uscite dall’assemblea confindustriale. Con lui parliamo soprattutto di Fincantieri, ma essendo chiamata ancora in causa la Fiom, che per i padroni (e non solo) sembra essere l’unico ostacolo all’uscita dalla crisi, non possiamo che iniziare da qui.
Invece di essere contento che anche i padroni se la prendono con il governo ti metti a fare i distinguo?
Voglio solo ricordare a Emma Marcegaglia che la Fiom è il sindacato che ha firmato più accordi, i nostri iscritti stanno crescendo e a ogni rinnovo delle Rsu usciamo premiati dai lavoratori. Una seria Confindustria dovrebbe fare i conti con questa realtà e contribuire a ricostruire buone relazioni sindacali invece di insistere sulla linea degli accordi separati. E non è con la libertà di licenziare che si esce dalla crisi ma con un serio progetto di politica industriale, che riguarda tutti, certo il governo ma anche le imprese. Il governo e le imprese dovrebbero chiedersi cosa, come, dove, perché produrre, e quale sistema di relazioni democratiche bisognerebbe costruire. Attivando la scienza, le università e la ricerca, confrontandosi con i sindacati su come andare avanti e non su come chiudere stabilimenti e licenziare. La Fiom nei prossimi giorni aprirà una discussione di massa per riconquistare il contratto nazionale, anche innovando il sistema di relazioni sindacali, definendo criteri democratici di rappresentanza e confrontandoci sulla qualità del lavoro e dei prodotti.
Veniamo alla Fincantieri, senza dimenticare Fiat e ThyssenKrupp: una tegola dopo l’altra…
L’annuncio irricevibile di Fincantieri che pretende di chiudere impianti e licenziare a man bassa, mette a rischio un altro importantissimo pezzo del sistema manifatturiero italiano. Che lo faccia un’azienda controllata dal ministero del tesoro è addirittura paradossale. Qui pesa l’assenza di una politica industriale del governo, e le chiacchiere sulla necessità di lasciare le soluzioni in mano al mercato, pensando di competere intervenendo sui diritti e sulla prestazione lavorativa ci stanno precipitando in un burrone. A questo punto serve un sussulto, una grande protesta sociale al fianco dei lavoratori dei cantieri, della Fiat e della ThyssenKrupp. Per affrontare la crisi non ci si può adattare, riducendo la capacità produttiva, al contrario vanno messe in moto tutte le energie professionali, tecniche, scientifiche per un grande progetto di riconversione della produzione navale, affiancando altri settori alle navi da crociera e militari. Penso a traghetti, all’off-shore. E persino a una catena di smontaggio delle vecchie navi piene di amianto e veleni che ora vengono inviate in India e in Bangladesh perché «conviene». La crisi va intesa come un’opportunità di cambiamento. Il governo deve confrontarsi con le Regioni e gli enti locali, con il mondo scientifico, sulla base di una proposta strategica. Questo chiedono i lavoratori in lotta in tutti i cantieri navali italiani.
Qualche risposta arriva, persino dal Vaticano, dai commercianti, dalle popolazioni minacciate dai licenziamenti. Adesso persino il ministro Romani dice che non si possono chiudere stabilimenti e licenziare senza un piano condiviso.
Se per piano condiviso intende trovare altri lavori o sostegni e lasciare morire il sistema industriale navale, non se ne parla. Bisogna salvare, qualificare e rilanciare questo settore.
Forse un progetto per salvare il navale dovrebbe rimettere in discussione l’intero sistema di mobilità.
È ovvio, basti pensare alla Fiat oltre che a Fincantieri, mentre si ragiona a compartimenti stagni invece che di mobilità compatibile delle persone e delle merci. Da Fiat in Italia non riusciamo a vedere neanche il piano industriale, nemmeno fosse un segreto militare, mentre Marchionne scala la Chrysler e ha in testa solo gli Usa. E negli Usa, a differenza dell’Italia, il governo ha un progetto e pone le condizioni e i vincoli alle imprese. Fuggono indisturbate le multinazionali italiane, per non parlare di quelle straniere come la ThyssenKrupp che pure a Terni – dopo la chiusura drammatica di Torino che ben conosciamo – ha una produzione importante e competitiva di acciai speciali. Ti pare che i lavoratori, nelle fabbriche e nei cantieri, devono essere lasciati soli a difendere, insieme al posto di lavoro, un futuro industriale del paese?
Almeno alla ThyssenKrupp e nei cantieri navali resiste un’unità delle forze sindacali. Perché in Fiat no?
Lo chiedi a me? Va specificato che per lo meno TK e Finmeccanica non pretendondo deroghe al contratto nazionale e l’unità tiene. Spero che gli altri sindacati riflettano su quel che sta avvenendo alla Fiat, anche perché il modello Marchionne fa strada, e in Fincantieri cominciano a dire che chi sopravviverà ai licenziamenti dovrà essere tosato con interventi insensati sulla prestazione lavorativa e i diritti. È un’idea balorda in una filiera che andrebbe ricostruita dopo gli smembramenti a colpi di appalti e subappali. Non è la singola prestazione che va rivista, ma l’intera filiera navale.
Invece di essere contento che anche i padroni se la prendono con il governo ti metti a fare i distinguo?
Voglio solo ricordare a Emma Marcegaglia che la Fiom è il sindacato che ha firmato più accordi, i nostri iscritti stanno crescendo e a ogni rinnovo delle Rsu usciamo premiati dai lavoratori. Una seria Confindustria dovrebbe fare i conti con questa realtà e contribuire a ricostruire buone relazioni sindacali invece di insistere sulla linea degli accordi separati. E non è con la libertà di licenziare che si esce dalla crisi ma con un serio progetto di politica industriale, che riguarda tutti, certo il governo ma anche le imprese. Il governo e le imprese dovrebbero chiedersi cosa, come, dove, perché produrre, e quale sistema di relazioni democratiche bisognerebbe costruire. Attivando la scienza, le università e la ricerca, confrontandosi con i sindacati su come andare avanti e non su come chiudere stabilimenti e licenziare. La Fiom nei prossimi giorni aprirà una discussione di massa per riconquistare il contratto nazionale, anche innovando il sistema di relazioni sindacali, definendo criteri democratici di rappresentanza e confrontandoci sulla qualità del lavoro e dei prodotti.
Veniamo alla Fincantieri, senza dimenticare Fiat e ThyssenKrupp: una tegola dopo l’altra…
L’annuncio irricevibile di Fincantieri che pretende di chiudere impianti e licenziare a man bassa, mette a rischio un altro importantissimo pezzo del sistema manifatturiero italiano. Che lo faccia un’azienda controllata dal ministero del tesoro è addirittura paradossale. Qui pesa l’assenza di una politica industriale del governo, e le chiacchiere sulla necessità di lasciare le soluzioni in mano al mercato, pensando di competere intervenendo sui diritti e sulla prestazione lavorativa ci stanno precipitando in un burrone. A questo punto serve un sussulto, una grande protesta sociale al fianco dei lavoratori dei cantieri, della Fiat e della ThyssenKrupp. Per affrontare la crisi non ci si può adattare, riducendo la capacità produttiva, al contrario vanno messe in moto tutte le energie professionali, tecniche, scientifiche per un grande progetto di riconversione della produzione navale, affiancando altri settori alle navi da crociera e militari. Penso a traghetti, all’off-shore. E persino a una catena di smontaggio delle vecchie navi piene di amianto e veleni che ora vengono inviate in India e in Bangladesh perché «conviene». La crisi va intesa come un’opportunità di cambiamento. Il governo deve confrontarsi con le Regioni e gli enti locali, con il mondo scientifico, sulla base di una proposta strategica. Questo chiedono i lavoratori in lotta in tutti i cantieri navali italiani.
Qualche risposta arriva, persino dal Vaticano, dai commercianti, dalle popolazioni minacciate dai licenziamenti. Adesso persino il ministro Romani dice che non si possono chiudere stabilimenti e licenziare senza un piano condiviso.
Se per piano condiviso intende trovare altri lavori o sostegni e lasciare morire il sistema industriale navale, non se ne parla. Bisogna salvare, qualificare e rilanciare questo settore.
Forse un progetto per salvare il navale dovrebbe rimettere in discussione l’intero sistema di mobilità.
È ovvio, basti pensare alla Fiat oltre che a Fincantieri, mentre si ragiona a compartimenti stagni invece che di mobilità compatibile delle persone e delle merci. Da Fiat in Italia non riusciamo a vedere neanche il piano industriale, nemmeno fosse un segreto militare, mentre Marchionne scala la Chrysler e ha in testa solo gli Usa. E negli Usa, a differenza dell’Italia, il governo ha un progetto e pone le condizioni e i vincoli alle imprese. Fuggono indisturbate le multinazionali italiane, per non parlare di quelle straniere come la ThyssenKrupp che pure a Terni – dopo la chiusura drammatica di Torino che ben conosciamo – ha una produzione importante e competitiva di acciai speciali. Ti pare che i lavoratori, nelle fabbriche e nei cantieri, devono essere lasciati soli a difendere, insieme al posto di lavoro, un futuro industriale del paese?
Almeno alla ThyssenKrupp e nei cantieri navali resiste un’unità delle forze sindacali. Perché in Fiat no?
Lo chiedi a me? Va specificato che per lo meno TK e Finmeccanica non pretendondo deroghe al contratto nazionale e l’unità tiene. Spero che gli altri sindacati riflettano su quel che sta avvenendo alla Fiat, anche perché il modello Marchionne fa strada, e in Fincantieri cominciano a dire che chi sopravviverà ai licenziamenti dovrà essere tosato con interventi insensati sulla prestazione lavorativa e i diritti. È un’idea balorda in una filiera che andrebbe ricostruita dopo gli smembramenti a colpi di appalti e subappali. Non è la singola prestazione che va rivista, ma l’intera filiera navale.
da il manifesto del 27 maggio 2011
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa