Lo avete mai visto un islandese? Scherzi a parte, non è usuale in Italia sentir parlare di questo popolo di sole 320 mila anime relegato nelle estreme e fredde propaggini settentrionali del continente. Eppure gli islandesi meriterebbero più di attenzione da parte dei media e soprattutto di chi si interroga sulle possibili fuoriuscite da una crisi economica sempre più aggressiva. All’inizio di luglio, ad Atene per seguire uno sciopero generale di 48 ore proclamato contro i tagli e le privatizzazioni del governo ‘socialista’, abbiamo incontrato un attivista della sinistra radicale islandese, e ne abbiamo approfittato per porgli qualche domanda sulla situazione nel suo paese. Si tratta di Thorvaldur Thorvaldsson, del Red Forum, invitato dall’Organizzazione Comunista di Grecia (KOE) a partecipare a degli affollatissimi dibattiti insieme con altri attivisti provenienti dall’Europa, dall’Argentina e dagli Stati Uniti, all’interno della quarta edizione del Festival Resistance.
Qual è il vostro giudizio sugli avvenimenti che hanno scosso l’Islanda negli ultimi anni?
La protesta popolare, con un carattere di massa, è esplosa nell’ottobre del 2008, dopo il collasso del sistema bancario che ha rivelato in maniera scioccante una crisi latente del sistema economico capitalista. In poco tempo ne è emerso un movimento di massa che per mesi, ogni settimana, ha manifestato nelle piazze del paese. In alcune occasioni le manifestazioni sono state anche molto partecipate, una novità per il nostro piccolo stato. Ora in parte continua, anche se con forza minore. Purtroppo non è riuscito a darsi delle prospettive e delle forme pienamente politiche, non ha saputo raccogliere e capitalizzare le richieste di cambiamento che venivano dalla piazza. Comunque agli inizi del 2009 la protesta ha imposto un significativo cambio di governo. Prima l’esecutivo era formato dai conservatori, e poi passò nelle mani dei socialdemocratici alleati con i verdi. Questa svolta, su pressione della piazza, ha generato una grande illusione e una grande speranza nella gente. L’idillio tra partiti di centrosinistra e movimento di protesta è durato per un po’. Nelle elezioni politiche della primavera del 2009 i due partiti – socialdemocratici e verdi – hanno ottenuto la maggioranza assoluta. Ma presto la speranza che ciò potesse portare a un cambiamento significativo di rotta, economicamente parlando, è stato frustrata. La gente si è resa conto che stavano proseguendo sulla stessa rotta del precedente governo, dettata dalle banche e dalle istituzioni internazionali. E incredibilmente chiesero l’adesione dell’Islanda all’Unione Europea!
Cominciarono un’ingannevole campagna propagandistica, affermando che se il paese fosse stato già membro dell’UE le nostre banche non sarebbero fallite… Grazie anche a queste bugie, nei sondaggi risultò che una maggioranza seppure risicata della popolazione era favorevole all’ingresso dell’Islanda nell’Unione. Ma in poco tempo, man mano che le bugie venivano smontate, i contrari all’adesione hanno raggiunto una quota tra il 60 e il 70%. Ma il governo continua a tentare, attraverso meccanismi legislativi poco limpidi, di imporre comunque questa scelta al paese. Grazie alla profonda contrarietà dell’opinione pubblica il processo di adesione è stato comunque già ritardato di anni, e i negoziati veri e propri sono iniziati solo da poco. Da tempo abbiamo formato un movimento che si dedica alla mobilitazione contro l’ingresso nell’UE, l’abbiamo chiamato “world sight”. Siamo fiduciosi che riusciremo a impedirlo. Se mai decideranno di indire sull’argomento un referendum, senza dubbio lo perderanno.
Quali sono gli obiettivi della vostra organizzazione politica?
La nostra organizzazione si chiama “Red Forum”. Abbiamo partecipato al movimento di protesta contro le banche dal principio. Anzi, ci siamo formati esattamente nel 2008 in occasione del fallimento delle banche. Abbiamo cercato di ampliare la mobilitazione, di orientarla su un dibattito e una piattaforma più approfonditi e avanzati, collaborando con altre forze politiche progressiste. Al centro della nostra piattaforma e della nostra azione politica abbiamo messo il recupero della nostra sovranità nazionale e popolare, oltre che la proprietà comune, collettiva delle risorse naturali. Le infrastrutture economiche devono essere socializzate, sottratte alla dittatura del mercato. Noi diciamo che devono essere capitalisti e banchieri a pagare la crisi che hanno generato. Difendiamo un allargamento della democrazia e della partecipazione a tutti i livelli. Non ci accontentiamo della democrazia formale, pretendiamo che le persone abbiamo più strumenti a disposizione per dire la propria. L’azione dei partiti e dei governi non può prescindere, non può essere impermeabile all’opinione delle persone e alla volontà popolare. Stiamo lavorando per veicolare questi valori nel movimento popolare, in particolare all’interno dei sindacati e nelle organizzazioni impegnate nella mobilitazione contro l’UE.
Ma perché siete così contrari ad entrare nell’Unione Europea?
Perché l’Unione Europea è uno strumento della dittatura del mercato. Dittatura del mercato che prima è stata scossa dai sintomi della crisi del sistema capitalistico e che ora ne è investita in pieno. E’ evidente che questo sistema non funziona, che il principio del massimo profitto a tutti i costi è fallito. E l’UE vuole costringere i popoli e le fasce sociali più deboli a pagare le conseguenze di questa scommessa andata male. Noi non pagheremo questa crisi e pensiamo che l’Unione Europea sia uno strumento per imporci di pagare la crisi al posto di chi l’ha generata. Se entrassimo nell’UE sarebbe più difficile per noi contrastare la crisi e le politiche che i vari governi adottano per scaricarla sui popoli. Potremmo dire che l’Unione ha inglobato queste politiche nel suo DNA, ne ha fatto la propria vera Costituzione. Naturalmente l’Unione è interessata alle nostre risorse…per questo preme affinché la nostra adesione sia rapida. Vogliono il nostro patrimonio ittico e le nostre riserve di idrocarburi. Per non parlare del controllo che potrebbero stabilire su un quadrante marino così esteso e così vicino al Polo Nord, strategicamente fondamentale.
E poi la nostra adesione all’UE segnerebbe la fine dell’Islanda come società distinta, come identità nazionale. Per tutte queste ragioni siamo contrari all’ingresso nell’Unione Europea. Inoltre pensiamo che la nostra resistenza all’ingresso nella confederazione rappresenti un sostegno a chi, all’interno dei suoi confini, oggi discute sull’opportunità o meno di rimanerci. Ormai non siamo più ai tempi delle vane promesse di un futuro migliore, ma dobbiamo tracciare un bilancio realistico e spietato di questa esperienza fallimentare. Non si può non riconoscere che l’adesione all’UE ha comportato ovunque un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini di molti paesi.
Cosa pensa la vostra organizzazione della questione del debito e delle misure che il FMI sta imponendo ai vari paesi?
Per quanto riguarda i piani del Fondo Monetario Internazionale, dopo il fallimento delle banche l’Islanda è stato il primo paese del continente europeo ad essere sottoposto da decenni ad un piano di aggiustamento del FMI. Ciò ha generato uno shock per una parte dell’opinione pubblica europea, il fatto che un paese europeo avesse ‘bisogno’ dell’aiuto di questa istituzione finanziaria internazionale. I cosiddetti aiuti del FMI non sono affatto tali, anzi impediscono ai popoli e ai paesi di risollevarsi. L’Islanda è stata obbligata a chiedere un prestito di 2.1 miliardi al FMI. Ogni scadenza delle varie tranche del debito è servita al Fondo per obbligarci ad accettare le loro condizioni capestro che servivano a garantire le banche britanniche che avevano speculato nel nostro paese ma poi erano fallite. Sulla questione del pagamento del debito il Governo è stato sconfitto ben due volte in altrettanti referendum, e con percentuali altissime, dopo che il Presidente si era rifiutato di accettare l’imposizione di un ulteriore prestito.
I prestiti sono stati ‘concessi’ in cambio di un ulteriore processo di privatizzazione di ogni aspetto della nostra economia. Quando nel 2013, data entro la quale il nostro debito dovrebbe essere estinto e il prestito restituito, con enorme sacrificio per gli islandesi, cominceranno i veri problemi! Perché i soldi per farlo non ci saranno, e la cifra da restituire non sarà più di 2,1 miliardi ma sarà salita per gli interessi a 2 e mezzo, se non di più. E noi non potremo pagare. Così, il governo islandese dovrà chiedere un altro megaprestito nei fatti per pagare gli interessi nel frattempo maturati su quello precedente. L’FMI a quel punto diventerà ancora più aggressive e imporrà la restituzione del prestito in maniera ancora più minacciosa e ‘chiedendo’ ulteriori tagli. E’ così che lavora il FMI. All’inizio della crisi si era diffusa la voce che ci sarebbero stati dei cambiamenti importanti nel suo modo di procedere, che il FMI avrebbe operato diversamente in Europa rispetto ai suoi metodi nel resto del mondo, soprattutto nel cosiddetto Terzo Mondo. Una speranza infondata, basata sul pregiudizio di superiorità dell’Europa rispetto al resto del pianeta. Perché mai l’FMI dovrebbe essere meno aggressivo e invadente con i paesi europei? Se non ci saranno profondi cambiamenti politici ed economici, a breve lo standard di vita per le grandi masse di cittadini europei andrà drammaticamente a fondo. In questi anni ‘l’esercito di schiavi’, se così posso chiamarlo, sta ingrossando le sue fila, mentre lo strato benestante della popolazione si sta assottigliando e i ricchi diventano sempre più ricchi. Questa è la terribile previsione per il futuro prossimo, bisogna cambiare, e subito!
Cosa pensi che accadrà a breve per quanto riguarda le crisi negli altri paesi europei: la Grecia, la Spagna, e presto anche l’Italia?
Io penso sia solo una questione di tempo per tutti questi paesi. La polarizzazione di classe sta aumentando ovunque. Le differenze sociali e di classe aumentano, e lasciano spazio a due sole opzioni. Si possono svendere tutti i beni pubblici e obbedire senza eccezioni ai mercati, cosa che stanno facendo tutti i governi finora, anche quelli cosiddetti di sinistra, accontentando tutte le richieste del capitale. Oppure i popoli si possono organizzare e unire a partire da un proprio programma indipendente, sviluppando processi realisticamente rivoluzionari. Unirsi e organizzarsi: è l’unico modo per poter imporre dei reali cambiamenti nell’immediato futuro. E’ ciò di cui abbiamo estrema necessità.
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