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Metropoliz. I poveri sulla luna

 

Un’ex fabbrica a Roma occupata da diverse etnie. Artisti, astronauti e scrittori al lavoro su un sogno: costruire un razzo, partire per il satellite. E chiuderla per sempre con la Terra che vuole sempre sgomberarti
«Qualcuno ci ha detto che dobbiamo andare sulla Luna»: così Paolo di Vetta – attivista dei Blocchi Precari Metropolitani – apriva il suo intervento all’assemblea indetta Roma per discutere il piano casa della regione Lazio. Era il 1 dicembre 2011. La notte prima uno strano avvenimento si era festeggiato a Metropoliz, la città meticcia realizzata nella ex fabbrica della Fiorucci al 913 di via Prenestina, fiore all’occhiello dei Bpm, unica occupazione inclusiva dei rom.
I Blocchi Precari Metropolitani nascono a Roma nel 2007, per contrastare la precarietà e la rendita. Rivendicano il “diritto all’abitare”, concetto che contiene anche le lotte per la casa, la tutela dell’ambiente e dei beni comuni, per una migliore qualità della vita, per una mobilità differente.
Il 9 marzo scorso Paolo manifesta davanti al Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica. I Bpm e i movimenti per la casa, con i No Tav, chiedono che i fondi delle grandi opere siano destinati allo stato sociale e a misure per contrastare la crescente precarietà. Un blitz delle forze dell’ordine mette fine alle proteste. Nei video reperibili in rete i manifestanti vengono circondati e costretti a fornire le generalità. Si genera spavento, tensione. Nelle immagini successive Paolo è a terra. Portato al San Camillo, sarà prelevato, messo agli arresti e processato per direttissima la mattina dopo con diverse accuse. Al fermo di Paolo e di altri tre manifestanti seguono lo sgombero della tendopoli di via Boglione e il tentativo di sgombero della ex casa di riposo di Casal Boccone. Sincronismo che dà credibilità all’ipotesi che a di Vetta sia stata tesa una trappola.
Anche Metropoliz è sotto assedio. Sabato mattina, mentre i militanti dei Bpm sono fuori dal tribunale di Piazzale Clodio, accompagno Renato Nicolini alla ex Fiorucci. È l’ultima delle visite illustri che si sono susseguite al Metropoliz. Non si vede nessuno in giro. La fabbrica sembra riconsegnata all’abbandono, proprio come ce la siamo immaginata all’indomani della “partenza”.Le orecchie ci rimandano suoni spettrali, una volta sparite le urla chiassose dei bambini, che il fine settimana, quando la scuola non c’è, accompagnano ovunque il visitatore. Antonella, Silvia, Abderazak, Lucica, Mamma Litai – al Metropoliz vivono duecento persone, italiani, peruviani, marocchini, eritrei, rom rumeni, ucraini – sono tutti radunati sui tetti a presidiare la fabbrica dall’alto, ritrasformata in fortino, come nel marzo di tre anni fa, nei giorni dell’occupazione. Prima di raggiungerli e fare le presentazioni, mostro all’inventore dell’estate romana il razzo di Metropoliz. La notizia ormai può essere resa pubblica: al Metropoliz c’è un razzo pronto a partire per la Luna, quando il dialogo con questa città inospitale e rabbiosa fosse da considerarsi definitivamente concluso.
Tutto è iniziato al Casilino 900. Ancora una storia di marginalità, emergenza abitativa, prevaricazione. “Savorengo Ker, la Casa di Tutti”, costruita da Stalker e dai rom della baraccopoli più grande della capitale (e raccontata nell’omonimo film da Fabrizio Boni e da chi scrive), era bruciata da poco, mandando in fumo i sogni di quanti l’avevano pensata come alternativa ai container e ai campi videosorvegliati fuori del raccordo anulare – i “villaggi della solidarietà” – proposti dalle amministrazioni di centrosinistra e di destra. Chi conosce le vicissitudini delle comunità rom nelle città sa che il nomadismo, ancora evocato come peculiarità della cultura zingara, è frutto soprattutto della politica degli sgomberi.
L’idea di un esodo sulla Luna, di un viaggio come istanza di libertà, di una “uscita di sicurezza” esoplanetaria, è nata filmando, con Fabrizio, le ruspe al lavoro: «Forse più che una casa, si sarebbe dovuta costruire un’astronave». Non ci ricorda Bauman che il pianeta è saturo, mentre la produzione di rifiuti umani (il sociologo si riferisce non ai rifiuti prodotti dall’uomo, ma agli uomini-rifiuto) prosegue senza posa? Dove possono andare i rom, i precari, i migranti, i “poveri”? Perché ormai è certo che nel mondo si sta disputando una guerra dei ricchi contro i poveri. A Mumbai (con cui Metropoliz si è recentemente confrontata nella Jornada da Habitação organizzata a San Paolo da Stefano Boeri) su 16 milioni di abitanti, 11 sono occupanti abusivi. Il dato scioccante è che i poveri in questa immensa metropoli (con 34mila residenti per km quadrato), capitale degli affari della terza potenza del mondo, occupano il 10 per cento del suolo urbano. Il 90 è in mano ai ricchi, che se lo contendono utilizzando gli slum per far scendere il prezzo dei terreni.
Il progetto di costruire un razzo per denunciare l’emergenza abitativa a Roma e chiedere il rispetto dei diritti anche per chi è costretto dall’indigenza ai margini della società civile – nell’anno di super moon, del 150esimo della nascita di Méliès e dei cinquant’anni dal primo volo umano nello spazio – l’abbiamo condiviso con Metropoliz. Che ha aperto le porte al cantiere etnografico, cinematografico e d’arte di Space Metropoliz (e alla città che man mano si affacciava incuriosita) con un entusiasmo crescente. Smentendo ogni previsione infausta circa il possibile esito catastrofico della missione.
A Metropoliz sono passati filosofi, astrofisici, artisti, architetti, astronauti, musicisti, danzatori, performer. Chi percorre oggi la via Prenestina scopre, in lontananza, dopo una curva, la torre di Metropoliz con l’immensa insegna azzurra dipinta da Hogre (una “uscita” di sicurezza per la Luna, appunto) e sopra il telescopio di bidoni di benzina, sorprendentemente fuori scala, realizzato da Gian Maria Tosatti con l’aiuto degli abitanti della fabbrica occupata. Le tracce di questo cantiere condiviso sono ovunque: i muri dipinti da Sten & Lex, Lucamaleonte, Mr Klevra, dai titoli emblematici: “In alto”, “An Amazing Adventure in Space”, “Space Dog”. E ancora: l’orto lunare di Fabio Pennacchia, il cretto lunare del collettivo Geologica e dal laboratorio di cartapesta curato da Federico Baciocchi, e lui, Big Rocket, il grande veicolo spaziale, un po’ favela un po’ campanile, costruito da Daniel, Tarik, Lucio, Boris (e da tanti altri) che ad un certo punto hanno rinunciato alla preziosa collaborazione del Laboratorio di arte civica di Francesco Careri per andare avanti da soli a costruire quello che era diventato il “loro” razzo, inaugurato a novembre con tanto di fuochi d’artificio.
Che cosa abbiamo imparato in questo anno di lavoro? Una cosa, sicuramente: occupare vuol dire, prima ancora che soddisfare un bisogno inalienabile dell’uomo, prendersi cura di un luogo, occuparsene, proteggerlo. Questa è stata la grande lezione che il Metropoliz, i suoi abitanti e i Bpm hanno saputo insegnarci. Proprio nell’anno di Occupy Wall Street, del Valle Occupato. Noi, dal canto nostro, forse abbiamo mostrato il valore della “inutilità” della cultura, che, come ci ha ricordato Nicolini citando Hugo Pratt, deve andare oltre i meccanismi di funzionamento della società esistente, essere «immaginazione del diverso possibile, la garanzia di non scambiare l’esistente per l’eterno».
Una cosa piaciuta a Paolo di Vetta – che oggi, revocati gli arresti domiciliari, parteciperà alla manifestazione indetta per le ore 15 che partirà da piazza Vittorio e proverà a guadagnare il cuore della città – è che alla fine sulla Luna non ci siamo andati. O che, se ci siamo andati, siamo anche ritornati.
È vero, il Metropoliz è diventato la Luna. E questo rende felici anche noi. Un luogo dell’altro e dell’altrove dove sperimentare nuove forme di socialità e di convivenza tra diversi. Ci auguriamo che le forze dell’ordine e chi governa questa città non se la sentano di interrompere questo importantissimo esperimento.

 
da “il manifesto”

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