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“Con questa legge sono in pericolo anche i licenziamenti collettivi”

“È vero, il reintegro è ridotto ormai a una ipotesi di scuola, quasi impossibile. Eppure Confindustria si straccia le vesti e il Pd e i sindacati cantano vittoria, ma la loro è una vittoria di Pirro”. Nanni Alleva, giuslavorista per lunghi anni coordinatore della consulta del lavoro della Cgil, avvocato che ha seguito decine e decine di cause per licenziamento, non ha dubbi: quello sull’articolo 18 è un grande passo indietro. Ma c’è di più, Alleva segnala un aspetto finora trascurato e ugualmente grave: sono stati indeboliti anche i licenziamenti collettivi.

Partiamo proprio dai collettivi: perdono anche loro le garanzie?

Purtroppo sì. Per questo tipo di licenziamenti si conferma che ci debbano essere due comunicazioni da parte del datore di lavoro: quella in cui annuncia la decisione generale, con il numero dei licenziati, e poi quella finale, grazie alla quale il singolo conosce i criteri per i quali è finito tra i “prescelti”. Ebbene, la prima comunicazione, anche se scorretta, non sarà più impugnabile per errori procedurali, perché si intende «sanata dall’accordo sindacale» (e pensiamo che danno sia, quando i sindacati ad esempio sono venduti). La seconda è impugnabile dal singolo lavoratore, ma l’errore procedurale non darà più luogo al reintegro, ma solo a un indennizzo da 12 a 24 mensilità. Il reintegro c’è solo nella rara eventualità che io riesca a indicare un mio collega che avrebbe dovuto essere licenziato al posto mio: una “guerra tra poveri”, insomma. È un vulnus fortissimo ai diritti: abbiamo vinto decine di cause in passato proprio sugli errori procedurali, e fatto reintegrare lavoratori in aziende come Fiat o Ferrovie.

Mi sembra la stessa logica della riforma dell’articolo 18, con il reintegro che diventa un miraggio.

Esatto. L’ipotesi in cui si applica il reintegro nel licenziamento economico individuale è fondamentalmente solo di scuola: cioè quando vi sia una «manifesta insussistenza» del fatto addotto da parte del datore di lavoro; per ricascarci, praticamente, quest’ultimo dovrebbe comportarsi da “ubriaco”, cioè dire ti licenzio perché devo chiudere il negozio in Via Condotti quando tu invece hai sempre lavorato in quello di via del Corso.

 

Però Susanna Camusso dichiara che resta l’«effetto deterrente», e le rimostranze di Emma Marcegaglia dimostrerebbero che le imprese non sono soddisfatte.

Io credo che, viste queste condizioni di quasi irrealizzabilità della dimostrazione di «manifesta insussistenza», l’effetto deterrente sia una pistola un po’ scarica. Le imprese poi magari ci tengono ad avere ulteriori sconti sulla flessibilità in entrata adesso che la riforma arriva in Parlamento. E poi qualcuno mi deve spiegare quando saranno costrette all’indennizzo, perché anche questo resta un capitolo ambiguo. La legge dice che l’indennità di 12-24 mesi si applica in «tutti gli altri casi» che non siano «manifesti».

Ma quali sono?

Vorrei sperare che ci si mettano dentro quelli per motivo economico «speculativo», cioè quando il datore di lavoro non licenzia perché è in crisi ma per aumentare i profitti. Come quando caccia un anziano per assumere un giovane, o un terzo lavoratore per sfruttare di più gli altri due, o esternalizza gli addetti in una coop per pagarli meno. Segnalo che in Francia questo tipo di licenziamento è illegittimo, e in Italia molto raramente i tribunali finora li hanno ritenuti giustificati. L’ambiguità su dove piazzare questo tipo di licenziamento, a quanto ho capito, si traduce nel dire che saranno ritenuti totalmente legittimi o al peggio solo indennizzati. Finché non so dove vanno categorizzati, in effetti non so che succederà. Io credo si dovrebbe impostare il tema dei licenziamenti in modo diverso: gli speculativi vanno in causa, per tutti gli altri – per crisi o ristrutturazione – si obbliga l’impresa a esperire prima tutti gli ammortizzatori sociali possibili, e solo dopo, quando si vede che la soluzione non si trova, si autorizza a licenziare come extrema ratio. Anche in questo caso cito la Francia, dove l’ammortizzatore «preventivo» è obbligatorio per legge.

E il disciplinare?

Lì si applica il famoso «modello tedesco», almeno? Manco per idea. Il giudice non ha discrezionalità. Può reintegrare solo per tre tipologie: 1) se il fatto imputato non sussiste; 2) se il lavoratore non lo ha commesso; 3) se il contratto prevede che sia punito con una sanzione minore. Ma questi casi, nella mia esperienza, sono il 10% del totale. Per il restante 90%, nonostante l’ingiustificato motivo, scatterà il solo l’indennizzo. L’unico lato positivo della riforma riguarda la velocizzazione dei processi. Poco infine è stato fatto per i precari: il primo contratto a termine e il primo interinale di 6 mesi sono stati addirittura liberalizzati, è stata tolta la causale. Il cocoprò è stato riportato ai paletti originari, con la necessità di un vero progetto. La partita Iva, se si dimostra che lavora in sede, ha il 75% del reddito da un unico datore o ci lavori per 6 mesi l’anno, viene trasformata in cococò e poi eventualmente in subordinato. Piuttosto, per risolvere il precariato, io istituirei una anagrafe del lavoro, dove i sindacati possono vedere l’uso dei contratti che negli anni si fa nelle aziende per poi denunciare all’Inps, che se trova abusi li potrà sanare.

* Da Il manifesto del 7 aprile

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