Giorgio Cremaschi/ «VADO IN PENSIONE DALLA FIOM»«Non si può essere dirigente all’infinito, ma militante a vita sì»MONTESILVANO (PESCARA)
Un cavallo pazzo? Un estremista? No, un pezzo importante di storia della Fiom degli ultimi quarant’anni. Giorgio Cremaschi va in pensione, lascia la carica di presidente del Comitato centrale della Fiom e inizia una nuova vita. Ma chi pensa che Giorgio stia togliendo il disturbo sta prendendo una cantonata: «La condizione di dirigente è a termine, militanti si resta per tutta la vita». Ieri Cremaschi ha salutato la sua organizzazione, i compagni e le compagne di una vita, in un clima di sincera commozione collettiva. Si possono avere anche idee diverse, si può litigare, ma l’appartenenza alla Fiom va al di là delle differenze. C’è una cultura comune, un rispetto reciproco, un metodo che avrebbe molto da insegnare a chi fa politica a sinistra, a chi fa sindacato e anche a chi tenta di costruire un soggetto politico nuovo.
Come è iniziata la tua burrascosa avventura in Fiom?
Nel ’74 sono stato chiamato da Claudio Sabattini. Ero lavoratore-studente e militavo nella sezione universitaria della Fgci di Bologna, l’unica sezione ingraiana e un po’ manifestina. In occasione della radiazione del manifesto dal Pci facemmo una discussione molto accalorata, io ero contrario ma accettai la decisione diversa sostenuta da Claudio. Nel Pci sono rimasto fino al suo scioglimento. Dunque, nel ’74 sono stato mandato a Brescia a seguire i corsi delle 150 ore, un’esperienza straordinaria. Arrivai subito dopo la strage di piazza della Loggia, ricordo una città in mano ai consigli di fabbrica per alcuni mesi.
Difficile immaginarlo oggi…
C’è una bella differenza con il presente. La classe operaia era al massimo della sua forza, autonoma e indipendente. Oggi, quando vado per il fine settimana a Brescia o anche a Torino, incontro compagni pensionati pieni di rabbia che vedono cancellate giorno dopo giorno le conquiste operaie strappate con grandi lotte. Questi compagni dicono le cose sostenute da Antonio Pizzinato in una recente intervista al manifesto: siamo tornati più indietro degli anni Cinquanta, il diritto alla mensa era stato conquistato con gli scioperi del ’44 e ora la Fiat lo abolisce in nome del mercato. L’indignazione di quei compagni oggi pensionati è la mia indignazione. La cancellazione dell’art. 18 è l’attacco a un simbolo, è il volto della restaurazione. La sua mancata difesa da parte della Cgil rappresenta un cedimento strutturale, uno stravolgimento del modo d’essere del sindacato. Con tutte le polemiche che ho avuto con Sergio Cofferati, ti ricordi?, adesso non posso non dire «onore al compagno Cofferati».
Il 2 giugno Cgil, Cisl e Uil saranno in piazza a Roma insieme per festeggiare la repubblica fondata sul lavoro mentre la Fiom, espulsa dalla Fiat con il consenso subalterno di Fim e Uilm dalle fabbriche, viene lasciata sola. E mentre si sbaracca lo Statuto dei lavoratori.
Per questa ragione io il 2 giugno praticherò l’obiezione di coscienza e non sarò in una piazza dove andrà in scena la crisi del sindacalismo italiano. Sarebbe, è necessario un conflitto sociale aspro per fermare un processo devastante. Non solo in Italia, certo, ma negli altri paesi europei i sindacati scioperano contro le politiche liberiste. Non è un caso che Sarkozy abbia attaccato i sindacati francesi accusandoli di non comportarsi come quelli italiani. L’assenza di un’iniziativa sindacale all’altezza dello scontro in atto è tra le cause dell’esito confuso delle elezioni italiane, molto più confuso che in Francia o in Grecia.
Che cosa ti hanno insegnato 38 anni di Fiom?
La Fiom mi ha insegnato tutto, il modo di vedere il mondo e la mia vita. Non c’è altro luogo politico o sindacale in cui uno come me avrebbe potuto esprimere in piena libertà anche il dissenso. Senza la mediazione della Fiom e la sua cultura operaia questa libertà non me la sarei potuto prendere. La Fiom non è sempre stata la sinistra nella Cgil, ha avuto anche una svolta riformista che però è fallita. Penso all’inizio degli anni Novanta, ai tempi di Vigevani e Damiano. Io fui mandato in Piemonte per punizione e tu scrivesti sul manifesto che il Piemonte era diventato la Sardegna del sindacalismo, e ti chiedesti se alla fine mi avrebbero piallato oppure no. Non mi hanno piallato, nel ’94 è tornato in Fiom Claudio Sabattini ed è iniziata la stagione dell’indipendenza sindacale oggi minacciata.
Cosa provi a lasciare la Fiom?
Mi dispiace molto, per motivi politici e umani e anche perché il mio sindacato è di fronte a una sfida terribile: riuscirà a sopravvivere solo se si riuscirà a ricostruire, a cambiare i rapporti di forza . Oggi il binomio Monti-Marchionne non prevede l’esistenza della Fiom.
Che farai da grande?
Non si può essere dirigente all’infinito, ma militante a vita sì. Non mi perderò una lotta e lavorerò nel movimento No-debito che è dentro una dimensione e una prospettiva europee. Poi, in qualche modo, farò opposizione nella Cgil. Inutile dirti che farò parte della neonata associazione degli «Amici della Fiom». La mancata difesa da parte della Cgil dell’articolo 18 rappresenta uno stravolgimento del modo d’essere del sindacato.
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