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Taranto libera!


Il corteo ha già cominciato ad avanzare, arrivo da una traversa giusto all’altezza di uno spezzone che non riconosco: alcune centinaia di persone, lì per lì penso che siano militanti dei centri sociali, ma no, certo non tutti, certo non la maggior parte, lo stile, le facce, non sono quelli, e le ragazze sono pochissime, si contano sulle dita delle mani.
E poi, il mezzo con gli amplificatori non è uno dei soliti che aprono i cortei con il sound system, mi avvicino, passo avanti, mi faccio largo e guardo meglio, questo è un ape car, sì insomma un treruote, con una scritta davanti: “Angelo ‘o Siciliano – Trasporti e Traslochi” (traslochi? certo che il signor Angelo dev’essere uno che non si ferma davanti a banali limitazioni di ordine pratico, o magari chissà, forse ha ragione lui, forse c’è sempre più gente che per un trasloco le basta un treruote).
Ah, ecco, dimenticavo, lo striscione di apertura dice: SI AI DIRITTI NO AI RICATTI – SALUTE AMBIENTE REDDITO OCCUPAZIONE, e slogan che mandano affanculo padroni, politici e sindacati. Insomma, forse ci sono un po’ di ragazzi dei centri sociali, ma tutti gli altri no: tutti gli altri chi sono?

Davanti, le bandiere della Cgil e Cisl e Uil, la testa del corteo è arrivata in piazza della Vittoria, quando lo spezzone che sto pedinando si avvicina sono già cominciati i comizi: loro entrano nella piazza compatti al grido di ven-du-ti-ven-du-ti, e incredibilmente la piazza si apre, li fa passare, dal mio posto di osservazione esterno non ho sentore di tafferugli o grida di oltraggio, i lavoratori al seguito della Triplice non li respingono, non li rifiutano – anzi ai margini della piazza sento mormorii della serie “e c’hanno pure ragione…”.
Mi allargo, mi allontano, torno alla piazza su un altro lato, un gruppetto di operai con le casacche Ilva sta discutendo della cosa, uno chiede a un altro: “Ma chi sono?” (ecco, finalmente!), e l’altro: “Operai dell’Ilva!”
“Ma si’ sicuro?” “E come no? Sicuro, sicuro, so’ colleghi!”. Mi intrufolo: “Scusa, ho capito bene, quelli che stanno contestando i sindacati sono operai dell’Ilva?” “Sì, dell’Ilva, come no, tanti li conosco” . Un altro: “Però non va bene, perché non li fanno parlare? Sono operai pure loro, anche se non sono d’accordo con il sindacato hanno diritto di spiegare i loro motivi, poi i sindacalisti possono sempre rispondere” – già, perché adesso il bailamme è che i ‘dissidenti’ vogliono la parola, i funzionari sul palco non vogliono dargliela, allora quelli cominciano con i fumogeni e il casino, così manco quelli sul palco possono parlare – “See, e da dove te ne vieni tu col  ‘diritto’? – interviene un altro del gruppetto – Non li possono fare parlare, se li fanno parlare lo sanno che non possono rispondere niente, lo sappiamo tutti che si sono venduti per anni e loro lo sanno che lo sappiamo, mo’ ci tocca stare qua perché il posto non lo possiamo perdere, ma mica siamo deficienti”.
Alla fine dal palco una voce arriva: “La manifestazione è terminata!” – non ci posso credere… E infatti dopo poco un’altra voce sempre dal palco rettifica: “La manifestazione si sposta in Piazza Garibaldi! – ohibò, e come fanno a traslocare da un momento all’altro questo ambaradam con baracca e burattini? Neanche lo penso e già intorno a me lo dicono. “Ci spostiamo nell’altra piazza? E come cazzo facciamo  a spostarci in questa situazione?” “Ma che vuoi stare a sentire a questi? Sciamen (andiamocene) va”.
Intanto gli autorganizzati si sono presi la parola dal loro treruote, gridano dal loro microfonoquello che, appunto, sanno tutti, cioè che in quindici anni questi sindacati non hanno mai organizzato uno sciopero in difesa dei diritti dei lavoratori, che si muovono solo adesso che guardacaso ci sono di mezzo gli interessi dei padroni, qualcuno si appella a tutti i colleghi presenti perché ricordino questo, e quello, e quella volta che, e quando abbiamo provato a chiedere con, e quando ci volevamo ribellare a, e ogni tessera del mosaico vergognoso che si va disegnando è intercalata da vi-ricordate-colleghi?! I cenni delle teste dicono che sì, si ricordano, si ricordano tutto.
E quando le voci dal treruote cominciano a parlare dei colleghi morti, dei figli malati, i cenni di assenso non bastano più, si alzano le voci, si levano le mani ad applaudire, mi guardo intorno, ci sono facce contratte, occhi rabbiosi. 
A questo punto chi sta parlando viene interrotto, una comunicazione concitata: “Abbiamo ancora due minuti e poi ci caricano, allora solo un’ultima cosa: se domani la magistratura chiude l’Ilva, che sia lo Stato a farsi carico dei lavoratori!” .
E mi sembra anche giusto, e persino ovvio dovrebbe essere, se c’è un’emergenza sociale, si tirino fuori i soldi per affrontarla, come si fa per le emergenze ambientali, catastrofi e terremoti – intanto nella piazza c’è confusione, sconcerto: “come ci caricano?” “ci mandano contro la polizia? A noi?”.
E no, non si capisce più chi sono quelli con i sindacati e chi sono quelli con i ‘dissidenti’, le voci, le facce, la rabbia ora sono le stesse: proprio le stesse.
Gli autorganizzati cominciano a defluire dalla piazza, qualcuno non vorrebbe, si incazza, “ma possibile che debbano sempre averla vinta loro?”
Ma quelli del treruote hanno ragione, non si può rischiare una carica in questa situazione, sarebbe un massacro e ci andrebbe di mezzo chiunque, così alla fine cominciamo a defluire dalla piazza, lo spezzone degli autorganizzati, io che continuo a pedinarlo e tanti altri alla spicciolata, un operaio anziano, in casacca Ilva pure lui, incita altri ad andarsene, grida stravolto, come se questa della minaccia della carica fosse la goccia che fa traboccare il vaso, l’umiliazione ultima che dà la stura a tutte le umiliazioni ingoiate negli anni, e mentre se ne va con gli altri dietro, lo sento gridare qualcosa che non capisco e poi, chissà per quale ragionamento, chissà qual è il legame con l’immagine dei celerini che già stanno avanzando: “I nostri figli non sono rifiuti!”.

Il treruote percorre via D’Aquino, si attesta in quella piazza che per un breve periodo di gloria è stata piazza Giordano Bruno ma oramai è Maria Immacolata.
Una signora prende il microfono, parla di Franco, un amico di suo figlio che lei conosceva bene, un ragazzo meraviglioso, morto di Ilva, chiede che “questa vittoria” – sì, dice proprio così, testualmente: “questa vittoria” – sia dedicata a lui. Un attimo di silenzio, poi i ragazzi che circondano il treruote cominciano a scandire, con voci dure, arrabbiate: “Uno di noi/lui era uno di noi…”.
Risalgo per via D’Aquino, voglio vedere il corteo di quelli rimasti nella piazza, voglio vedere quanti sono, incrocio invece gente che viene giù alla spicciolata, parte dello spezzone autorganizzato immagino, stanno sparsi per la via ma uniti da uno slogan che continuano a ripetere: “Taranto/libera! Taranto/libera!”.
Avanzo ancora, mi fermo, aspetto, del corteo autorizzato-come-previsto non c’è traccia, aspetto ancora, alla fine eccoli. Cioè, ecco che avanza uno schieramento serrato di celerini, dietro intravedo i ‘manifestanti’.
Allora decido che non me ne importa niente di vederli, contarli, me ne torno a casa piuttosto: tanto non importa quanti siano quelli che avanzano protetti dalla polizia, la storia di questa giornata l’hanno fatta quegli altri.

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1 Commento


  • antonella

    Bellissima cronaca, o racconto. Una boccata d’aria in mezzo a tutta la monnezza che ci propongono i media di regime. Grazie.

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