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Morte a Ravenna

Un groppo allo stomaco che non riesco a sciogliere. E’ ciò che mi rimane dopo la notizia della morte di Lorenzo Petronici, operaio della Cooperativa Facchini Riuniti di Ravenna, schiacciato da un rotolo di lamiera nella fabbrica dell’ex presidentessa di Confindustria. Un groppo allo stomaco, anche se non lo conoscevo personalmente, perché so bene le condizioni in cui lavorano i “facchini” della Co.Fa.Ri. all’interno delle aziende committenti nella zone industriali delle Bassette e della Baiona.

Lorenzo Petronici, come afferma candidamente il presidente della Co.Fa.Ri., lavorava da 11 anni alla Marcegaglia, sempre con la stessa mansione, ed è morto utilizzando il carroponte dell’azienda committente. Non c’è nulla di più chiaro per affermare che non si trattava di un “appalto di servizi”, ma di interposizione di manodopera, visto che mancava una delle condizioni fondamentali di un appalto “lecito” (anche secondo la definizione molto “liberal” della Legge Biagi), vale a dire l’organizzazione dei mezzi tecnici necessari da parte dell’appaltatore. Dopo undici anni continuativi dentro la Marcegaglia poi, a chi obbediva Lorenzo ? Alla catena gerarchica del committente, o, come dovrebbe essere negli appalti “leciti”, a quella della cooperativa ?

Agenzie di somministrazione sotto mentite spoglie, questo è il ruolo svolto dalle cooperative di facchinaggio, anche da quelle “storiche” come la Co.Fa.Ri., e anche da prima che Romano Prodi introducesse in Italia il lavoro interinale. Lavoratori formalmente in appalto ma inseriti pienamente nel ciclo produttivo, e ne è la prova la loro continuità sullo stesso posto di lavoro.

Metalmeccanici travestiti da facchini, secondo un meccanismo ben descritto da Francesco Piccioni nella recensione di “Dove sono i nostri”, l’inchiesta dei compagni del Clash City Workers: “Le aziende manifatturiere, specie le più grandi, delocalizzano, esternalizzano, “affidano” a terzi interi pezzi di ciclo produttivo. In molti casi senza spostare un bullone da dove è sempre stato. Ma una nuova società incaricata della “movimentazione” interna a uno stabilimento industriale – un’operazione indispensabile, parte integrante del ciclo – quasi sempre assorbe il personale che prima era calcolato in conto all’azienda, ma nel passaggio di consegne “svanisce” come “industria in senso stretto” per ricomparire magicamente sotto la voce “servizi all’industria”. Nella realtà di tutti i giorni non è cambiato nulla, nelle statistiche nazionali moltissimo”.

In verità, nella realtà di tutti i giorni di questi lavoratori cambia molto, visto che possono essere buttati fuori dal committente da un momento all’altro, e che non devono creare problemi per la mancanza di sicurezza, se no la coop rischia di perdere l’appalto. La loro presenza aiuta le piccole aziende a mantenersi sotto i 16 dipendenti, in modo da non essere soggette all’(ormai massacrato) art. 18, e loro stessi non ne sono coperti in caso di licenziamento, visto che per i soci lavoratori delle coop non è mai andato in vigore (D’Alema, graziosamente, li escluse). Ho visto i “facchini” lavorare in linea nelle fabbriche del bolognese, decapare pezzi con l’acido, condurre macchine utensili, lavorare ai forni per metalli, tutte cose che col facchinaggio non c’entravano una minkia.

E ho visto a Ravenna i lavoratori della Co.Fa.Ri. presso i loro committenti, guidare muletti dalle ruote distrutte, trasportare carichi oltre la portata dei carrelli elevatori (che si impennavano da dietro), imballare impianti alti tre metri arrampicandosi su trabattelli senza parapetti. Li ho visti sollevare impianti giganteschi con carriponte dotati di ganci privi di staffe, e con catene sottoposte a controlli insufficienti. Non utilizzavano alcun mezzo proprio, e dovevano subire completamente la mancanza di sicurezza dell’appaltante, comprese le vie di fuga ostruite, o i tetti di eternit deteriorati, o i fumi di saldatura che si spandevano negli ambienti privi di aspirazioni.

Li ho visti in fabbriche che sembravano cantieri, con un organico aziendale pari a un terzo degli effettivi al lavoro. Il resto era tutto in appalto: elettricisti, tubisti, saldatori, coibentatori, facchini, senza nemmeno quelle figure di coordinamento sulla sicurezza che sono d’obbligo nei cantieri edili. Un casino ingestibile, dove non sapevi mai chi c’era e chi non c’era. Gente che cambiava in continuazione, priva di una formazione specifica sui rischi dell’ambiente di lavoro, dove ognuno svolgeva la sua singola mansione (saldare, tagliare col flessibile, stendere lana di vetro, sollevare tonnellate di metallo) a rischio per se stesso e per gli altri, perché l’unico input che arrivava dalla dirigenza era il rispetto tassativo dei tempi di consegna.

Quanto alla Marcegaglia, un fatto accaduto l’anno scorso la dice lunga sul rispetto che l’azienda nutre nei confronti dei propri lavoratori e per quelli degli appalti: nel febbraio 2013 un dipendente disabile veniva licenziato per aver osato fornire un paio di scarpe antinfortunistiche (usate) “di proprietà dell’azienda” a un’operaia degli appalti che ne era priva.

Chi organizza questa gente? Chi lotta con loro?

Martedì mattina si è svolta un’assemblea alla presenza della direzione della Marcegaglia, le Rsu e i segretari provinciali per decidere come affrontare l’evento drammatico”. Bel posto, dove le assemblee sindacali si fanno alla presenza della direzione aziendale, dove dopo l’omicidio bianco non è stato indetto alcuno sciopero, dove “da due annidicono alla Fiomnon è possibile riunire il coordinamento delle Rls per discutere delle precarie situazioni in cui versano i lavoratori“. E che cazzo aspettano, il permesso di Emma?

dal blog  illavorodebilita.wordpress.com

 

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