Il caso sindacale italiano degli anni ’70 del secolo scorso si sta rovesciando oggi nel suo opposto. Quello che è stato a lungo considerato uno dei più forti e innovativi movimenti sindacali dell’occidente sta diventando uno dei più burocratizzati e ininfluenti. Le generalizzazioni sulla crisi della rappresentanza sindacale nell’epoca della globalizzazione non ci portano da nessuna parte. È ovvio che la ritirata è generale, ma quella italiana è tanto più rilevante in quanto parte da una avanzata superiore a tante altre. E questo oggi diventa sentire comune: la caduta di consenso verso le grandi organizzazioni confederali è poco distante da quella verso la rappresentanza politica. E in essa si sommano sia la perdita di fiducia del mondo del lavoro organizzato, sia l’estraneità al sindacato dei milioni di precari, sia un sentimento antisindacale reazionario che di fronte alla crisi esplode.
La contestazione al sindacato perché troppo rigido e quella perché non fa nulla finiscono così per diventare un sentimento diffuso, sul quale giocano tutti gli schieramenti politici per conquistare facile consenso. Mai i gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL hanno subito tanta caduta di stima e prestigio, al di fuori di quella struttura di apparato ed attivisti tanto vasta quanto chiusa verso l’esterno.
Ripeto questa è una particolarità Italiana della crisi sindacale, come lo è il fatto che il nostro paese è in Europa quello con la massima devastazione nel campo della sinistra radicale ed anticapitalista. Magari tra i due fatti c’è qualche rapporto.
La crisi sindacale italiana è prima di tutto la crisi della CGIL. CISL e UIL nella crisi son tornate alle loro identità originarie, moderatismo, aziendalismo, a volte la CISL solidarismo. Non credo che siano davvero così diverse da come erano negli anni 50 del secolo scorso.
La CGIL invece è in una terra di nessuno, non ha certo recuperato antiche identità, anzi le rifiuta, e non ne ha di nuove. Come una volta ammise Susanna Camusso, è proprio questa l’organizzazione oggi più confusa ed incerta sulle sue basi culturali.
Quindi la crisi attuale del sindacato italiano è prima di tutto quella della CGIL, della sua cultura , delle sue pratiche, dei suoi gruppi dirigenti.
Non era scontato, non era tutto scritto nel declino della centralità dell’operaio fordista. La tendenza tutta nostra di spiegare e alla fine giustificare sociologicamente i disastri di questi anni è parte del problema, non della soluzione. Non che la realtà non cambi profondamente, come è ovvio, ma proprio per questo i limiti dell’azione soggettiva diventano ancora più importanti. È sicuramente più facile fare buon sindacato quando esiste in larghi strati del mondo del lavoro la spinta rivendicativa e all’azione diretta. Più difficile è quando tutte le condizioni economiche e sociali diventano sfavorevoli, e tutto il mondo del lavoro subisce il ricatto della disoccupazione di massa.
Questa è la condizione attuale e i gruppi dirigenti che giustificano se stessi con la passività diffusa in realtà si autoaccusano. È proprio nelle difficoltà che si costruiscono le condizioni della ripresa della iniziativa. Lo fece la CGIL negli anni 50 e 60 del secolo scorso, non è assolutamente in grado di farlo la CGIL di oggi.
Non siamo ingenerosi. È chiaro che alla CGIL è venuto meno il retroterra politico e culturale delle grandi organizzazioni politiche della sinistra. Non c’è più il Partito Comunista e il Partito Democratico, che pure ne è formalmente ancora l’erede e da questa eredità riceve ancora un bel premio elettorale, non è neppure un classico partito socialdemocratico. L’alternanza politica ventennale tra berlusconismo e liberismo temperato, ha totalmente devastato nella cultura popolare il senso comune del movimento operaio, e non a caso il primo partito operaio in vaste zone del nord è stato una volta la Lega e ora il movimento 5 stelle.
Non si deve essere ingenerosi, ma resta il fatto che i gruppi dirigenti che si sono succeduti alla guida della organizzazione in questi anni hanno progressivamente rinunciato a costruire una identità indipendente della CGIL. Certo hanno vissuto e manifestato nel rosso delle bandiere e nel ricorso alla iconografia classica del movimento operaio. A volte hanno persino accentuato questi tratti di immagine, ma sempre di più è stata una immagine che copriva una realtà ben diversa.
Accettando o subendo la legge Fornero sulle pensioni e la messa in discussione dell’articolo 18, il gruppo dirigente ha segato le basi di sostegno di tutta l’organizzazione. Nel passato la CGIL aveva posto sempre dei limiti alla propria disponibilità negoziale. Non aveva mai accettato riforme delle pensioni senza accordo sindacale, e aveva portato milioni di persone in piazza per difendere, con successo, l’articolo 18. Erano questi i tratti identitari della CGIL che, pure nel pieno di una grande ritirata contrattuale, ne definivano ancora un ruolo sociale e politico nel paese. A partire dal governo Monti questo ruolo è venuto meno e la CGIL ha rinunciato ad esso senza lottare.
La FIOM di Maurizio Landini in questi anni ha rappresentato una sorta di altra CGIL, anzi ha finito per occupare nel sentimento collettivo lo spazio una volta occupato dalla confederazione.
Il no al diktat della Fiat a Pomigliano ha raccolto un consenso senza precedenti per una vertenza di fabbrica. Segno che il conflitto capitale lavoro conserva una sua centralità politica e culturale anche nella società di oggi.
Dal no della FIOM alla Fiat sarebbe potuto partire un processo di ricostruzione, pure scontandone le difficoltà ed i costi. Ma questo non è avvenuto, il gruppo dirigente della CGIL ha subìto come un problema le posizioni della FIOM, e ha persino registrato fastidio per il troppo consenso verso di esse. D’altra parte il gruppo dirigente della FIOM ha scelto di non consolidare in un percorso alternativo il consenso ricevuto, si è così trovato progressivamente isolato in CGIL e alla fine ha persino tentato un accordo con il gruppo dirigente confederale, accordo che è poi saltato con l’accordo del 10 gennaio 2014. E questa intesa ha un significato e una portata costituente per il sistema delle relazioni sindacali e per la stessa CGIL .
Va detto che i contenuti di fondo di quella intesa erano già definiti nell’accordo del 28 giugno 2011 e in quello del 31 maggio 2013, il primo contrastato, il secondo accettato dal gruppo dirigente della FIOM.
Con il Testo Unico sulla rappresentanza si formalizza un modello di relazioni sindacali incompatibile con la storia e la natura passate della CGIL.
Il contratto nazionale viene sottoposto al regime delle deroghe a livello aziendale, nella sostanza da livello minimo diventa il massimo possibile per milioni di lavoratori. Il sistema delle relazioni si polarizza tra un centro confederale che diventa la fonte di ogni diritto, e il luogo di lavoro ove si formalizza la complicità con l’impresa. Il dissenso non è ammesso a nessun livello, chi non accetta il sistema è fuori dalla rappresentanza. E chi lo accetta deve subire il principio della dittatura della maggioranza che è sempre inaccettabile, ma nelle relazioni sociali è una mostruosità.
La FIOM e tutto il sistema dei contratti nazionali vengono messi in discussione nelle loro basi fondative: il sindacalismo industriale. Il nuovo modello si fonda sulla complicità aziendale che , come scriveva nel suo libro bianco l’allora ministro Sacconi, deve sostituire la concertazione. La differenza è rilevante.
Nella concertazione le parti in campo sono tre. Il governo il sistema delle imprese,le grandi organizzazioni sindacali. È chiaro che questo sistema è compatibilista per sua natura, ma le tre parti conservano una propria autonomia e giungono ad accordi partendo dai rispettivi punti di vista.
Il nuovo sistema invece prevede la corporativizzazione preventiva degli interessi. Il linguaggio politico ha già registrato il cambiamento con la diffusione del termine “Parti Sociali”. Che racchiude assieme sindacati ed imprese, che prima definiscono tra loro gli interessi comuni, poi assieme li pongono al governo e al sistema politico.
Renzi può facilmente vantarsi di non dipendere più dalla concertazione, perché essa è già stata abbandonata dai suoi attori principali e in primo luogo dalla CGIL.
Le parti sociali non sono più in conflitto, ma complici fra loro nel nome della competitività del sistema. La segretaria generale della CGIL e il presidente della Confindustria assieme hanno sfiduciato l’incolore governo Letta e assieme hanno presentato una piattaforma sul fisco. In impresa si accordano sulla flessibilità, poi i produttori vincolati dal patto comune assieme si rivolgono al governo. Il sistema non è più triangolare, ma bilaterale, imprese e sindacati da un lato, governo e politica dall’altro.
La CGIL di fronte alla crisi del proprio ruolo e potere aveva di fronte a sé due strade. La prima era quella di uscire da sinistra dal sistema concertativo, facendo propria la scelta di rottura della FIOM a Pomigliano. L’altra era quella di accettare il sistema della complicità, di uscire dalla concertazione da destra.
Hanno ovviamente prevalso l’istinto di autoconservazione dei grandi apparati e la paura del vuoto, alimentati da tutta la pratica della concertazione di un ventennio. E così la CGIL ha finito per sottomettersi ad un modello che corrisponde perfettamente alle elaborazioni della CISL degli anni 50.
Il testo unico formalizza in CGIL una mutazione genetica e organizzativa di fondo che, come sempre avviene in questi passaggi, verrà sdegnosamente negata fino a che non potrà dispiegare tutti i suoi effetti.
La sostanza è dunque che la particolarità sindacale italiana finisce in una normalizzazione simile a quella che si è verificata nel sistema politico.
Nei vecchi contratti dei metalmeccanici la Federmeccanica soleva pretendere all’inizio della trattativa la definizione del “perimetro” entro il quale essa poteva svolgersi. Naturalmente questo perimetro corrispondeva esattamente agli interessi delle imprese e un contratto decente si sottoscriveva dopo che il conflitto era riuscito ad infrangerlo.
Oggi il perimetro sociale e politico viene definito preventivamente da sistemi che si pongono l’obiettivo di escludere ogni legittimità al conflitto. Ecco, dentro questo perimetro la CGIL con tutte le sue ambiguità e contraddizioni non è ammessa, deve emendarsi, come già fece la CISL venti anni fa, da ogni anima radicale e conflittuale.
La omologazione della CGIL a CISL e UIL pone una questione di fondo a tutte e tutti coloro che rifiutano la normalizzazione sociale.
Si deve dare per scontata la perdita del campo dei grandi conflitti, e rifugiarsi nel particolare delle realtà locali, oppure bisogna operare per la ricostruzione di un fronte generale di lotta? È la stessa questione che percorre l’arcipelago della sinistra e dei movimenti radicali. Ci si deve rassegnare ad un sindacalismo conflittuale a chilometro zero, senza ambizioni di dimensione più vasta, così come questa tentazione percorre la sinistra politica dopo le tante sconfitte?
Credo che si debba provare ad essere più ambiziosi per tre ragioni di fondo.
Perché la pratica conflittuale diffusa ha bisogno di progetti e strumenti unificanti, come hanno sempre insegnato tutti i percorsi di ricostruzione.
Perché il sistema che emerge dalla crisi è fondato su una catena di comando che parte dal locale e giunge rapidamente ai vincoli europei, ai diktat di banche, finanza, tecnocrazia.
Perché anche la più semplice ed immediata delle lotte ha oggi bisogno, per reggere, di un punto di vista generale che le dia maturità e forza.
La scomparsa del ruolo politico storico della CGIL, venti anni dopo quella del PCI, ripropone quindi la questione dello spazio che quel ruolo ricopriva.
Il sindacalismo di base, pure promotore di conflitti generosi ed importanti, ha mostrato di non avere la forza, anche per le sue divisioni, di coprire quello spazio.
La sinistra CGIL in tutte le sue anime e il gruppo dirigente della FIOM hanno visto chiudersi progressivamente gli spazi di condizionamento interno delle politiche della confederazione, e il congresso ha sanzionato questa involuzione.
I movimenti sociali hanno mostrato grande capacità di mobilitazione, come hanno mostrato le giornate del 18 e 19 ottobre 2013, ma rischiano di rifluire ed esaurirsi verso passate esperienze, se non riescono a collegarsi al conflitto di lavoro più tradizionale.
Nessuna delle forze e delle componenti del conflitto sociale è oggi in grado di essere o proporre una prospettiva autosufficiente.
Ma forse è proprio da questa consapevolezza tutta politica che bisogna ripartire qui ed ora, per costruire le condizioni e le forze per infrangere il perimetro che si sta costruendo.
* articolo pubblicato anche su “Alternative per il socialismo”
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