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Conoscere il Jobs Act per abbatterlo. Si può

In che mondo viviamo? Quali sono – oggi – le regole base su cui si regge? E, parlando di sfruttamento del lavoro, cosa sta accadendo con l’introduzione del Jobs Act?

Comprendere e padroneggiare le coordinate fondamentali del rapporto attuale tra capitale e lavoro – non solo quelle teoriche, praticamente “eterne” sotto il cielo di questo modi di produzione, ma quelle “conformate dalla legislazione” e dai rapporti di forza – è il primo indispensabile passo per chi voglia seriamente opporsi, costruire forza sociale e politica, rovesciare la situazione. Il resto – desideri, autoespressione, antagonismo comportamentale (o addirittura parolaio) – non ha più nulla di serio da dire sul cambiamentoradicale del mondo.

Il convegno organizzato dal Forum Diritti Lavoro (L’Italia è una Repubblica (democratica), fondata sul (lavoro) Jobs Act) non aveva dunque nulla del classico seminario autoreferenziale, ma ha cercato di fissare il punto e individuare le possibili vie d’uscita, non solo sul terreno delle “prassi” sindacali, quanto sulle eventuali crepe in un edificio che da lontano ( e spesso anche da vicino) può sembrare impenetrabile. Conoscenza da mettere a disposizione per definire il “che fare?”, non esibizione di erudizione. Impossibile dar conto in dettaglio di tutti i contributi, vista anche la grande quantità di interventi (giuslavoristi, sindacalisti, animatori di associazioni, ecc; con presenze che vanno da Giorgio Cremaschi a Carlo Guglielmi, da Emidia Papi a Luca Santini, da Riccardo Faranda a Pierluigi Panici, Antonio Di Stasi, Giorgio Airaudo, Fabrizio Burattini, Franco Russo, Fabrizio Tomaselli, Paolo Leonardi, Lidia Undiemi, ecc). Preferiamo relazionare sulle idee fondamentali, i tratti salienti di un’analisi, gli abbozzi di risposta, vista la generale condivisione del pericolo mortale rappresentato dalla modifiche legislative, costituzionali, normative, pratiche innescate dalla più feroce reazione padronale che si sia mai vista all’opera da molti decenni a questa parte. La prima cosa di cui rendersi conto è che un’era è definitivamente conclusa. La grande stagione della conquista dei diritti del lavoro, in cui “erano i padroni a chiedere una legge anche favorevole ai lavoratori, ma che rappresentasse un limite alle rivendicazioni”, è ormai stata decisamente archiviata. L’esempio più semplice è “l’esigibilità” degli accordi sottoscritti, ossia la certezza che saranno applicati dalla controparte e non rimessi in discussione. Negli anni ’70, e ancora fino agli ’80, erano i lavoratori a cercare l’assicurazione che i padroni avrebbero rispettato quanto sottoscritto, e l’unica soluzione possibile era la forza della lotta collettiva. Oggi l’”esigibilità” è voluta dalle imprese, che – per averne certezza – si scelgono i sindacati con cui trattare e pretendono che questi abbiano l’esclusiva della rappresentanza. Con l’adesione entusiasta dei “complici” – Cisl, Uil e Cgil, nonostante l’opposizione di facciata al Jobs Act – che hanno stipulato il 10 gennaio 2014 un accordo “fra le parti” che, se applicato, non prevede alcuna alternativa al proprio “monopolio di fatto”. Ma è solo uno degli architravi di un edificio giuridico e relazionale impostato per realizzare la completa svalorizzazione del lavoro, secondo uno schema europeo che ha visto nella Grecia una cavia da laboratorio su cui sperimentare dal vivo ogni “novità”. In Italia il percorso è stato certamente più lungo, ma sta arrivando alle identiche conclusioni. La differenza, anche nella reazione popolare e di massa, è dipesa in parte dall’esistenza di alcuni ammortizzatori sociali, ma soprattutto – ancora una volta – dalla compartecipazione dei sindacati complici. Non a caso, la moltitudine di scioperi generali che ha attraversato la Grecia nel corso degli ultimi cinque anni ha generato anche una risposta politica in grado di assumere la guida del paese, mentre in Italia la “sinistra” si è andata invece liquefacendo. Il Jobs Act viene a completare e dare forma sistematica a questo percorso, mentre semina “bombe a orologeria” sul futuro. L’abolizione dell’articolo 18 per le assunzioni effettuate dopo il primo marzo di quest’anno è “la pistola con il colpo in canna” dapuntare alla tempia di ogni singolo lavoratore, come chiedevano da anni le imprese, e mira a produrre una selezione fisiologica tra i lavoratori, nella convinzione di poterli addomesticare con la violenza per sempre. Il combinato disposto delle misure del governo Renzi produce precarietà anche laddove parla di “stabilità”. Ne sono un esempio chiaro la valanga di trasformazione di contratti a termine o comunque precari in “contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Da un lato si dimostra che i contratti precari servivano soltanto ad aggirare la tutela dell’art. 18, abbassando in un solo colpo sia i livelli salariali che la conflittualità. Dall’altro, con l’incentivazione finanziaria – i nuovi contratti garantiscono alle imprese una decontribuzione che può arrivare anche a 24.000 euro nell’arco dei primi tre anni – si introduce un meccanismo che scassa ancora di più i conti dell’Inps e produce un “effetto concentrazione” simile alla rottamazione delle auto: molte assunzioni (in realtà semplici cambi di contratto) in pochi mesi, poi basta, per saturazione di un mercato comunque soggetto alla crisi e alla deflazione.

In pratica, il contratto “a tutele crescenti” è peggio di quello a tempo determinato, perché il licenziamento può arrivare ogni giorno, non soltanto alla fine del contratto. Il precariato viene così reso “stabile”, mentre la stabilità è definitivamente eliminata. E non è senza significato l’enfasi posta dallo stesso Renzi sulla “rottamazione dell’art. 18”. Il centrosinistra classico – i Bersani e i Fassina, insomma – avrebbero fatto la stessa cosa mettendo l’accento su quel piccolo pezzetto “conservato”, per dire che in fondo si trattava di un “buon compromesso”. Renzi invece vuol dare proprio il senso di una rottura definitva col passato, un cambio di regime anche simbolico.

Sul contributo della “sinistra del Pd” allo smantellamento delle tutele vale la pena di sottolineare una loro “vittoria” che ha peggiorato persino lo schema renziano. Hanno rivendicato di aver mantenuto la reintegra sul posto di lavoro almeno per i licenziamenti disciplinari. In realtà, il lavoratore – per ottenere la reintegra – deve dimostrare di non aver fatto quello che l’azienda gli contesta. Il che, come spiega la logica gesuitica, è assolutamente impossibile. È la famosa “prova diabolica”: io ti accuso di essere per esempio in combutta con il diavolo; se tu riesci a dimostrare che non è vero allora sei davvero in cobutta con il diavolo, perché soltanto un demonio può costruire la dimostrazione che ti scagiona. Non basta. Bisogna dimostrare in alternativa “l’insussistenza del fatto materiale contestato”. Ma, soprattutto, in virtù di questa “eccezione” solo ipotetica che consente la reintegra, è stato creato un corto circuito normativo che fa saltare anche le argomentazioni a favore dell’incostituzionalità della norma. Un vero capolavoro di “compromesso”! Tanto più che persino il “risarcimento” (al posto della reintegra) viene ridotto al minimo per l’azienda. I due mesi dovuti per ogni anno di lavoro svolto diventano uno solo, se la violazione commessa dall’azienda è solo “procedurale”, e comunque riducibile di un altro 50% che viene coperto dalla fiscalità generale. Di fatto, il licenziamento illegittimo è diventato un diritto dell’azienda e viene finanziato dallo Stato.

 

L’incostituzionalità è del resto la cifra più autentica dell’attuale governo. Non solo l’intero Jobs Act, presentato come “legge delega”, è di fatto una delega in bianco allo stesso governo (manca qualsiasi specificazione di merito sui provvedimenti da emanare; semplici “titoli” che poi l’esecutivo può riempire a piacimento). Ma anche le “riforme strutturali” future. Nel Def, per esempio, si chiede all’Unione Europea un po’ di flessibilità in più sul deficit (ma entro il limite del 3%), e in cambio si promettono “dodici riforme” che non vengono neanche specificate. Come se la trasformazione delle relazioni sociali all’interno di questo paese non fosse più un affare che convolge tutte le parti e tutte le persone, ma fosse ormai solo questione privata del premier e del suo “cerchio magico”. Non stupisce, dunque, che negli accordi che regolano i contratti di lavoro per l’Expo venga nominato esplicitamente l’art. 8 del “decreto Sacconi” (agosto 2011, c’era ancora Berlusconi al governo), che consente “la deroga agli accordi e alle leggi esistenti”. Ad esempio, i contratti di Expo parlano di obligo a “una prestazione della durata di 5 ore e mezza”, non di orario di lavoro. Tecnicamente, la prestazione può essere spezzettata all’infinito, per cui è teoricamente possibile che le cinque ore e mezza possano essere spamate nell’arco dell’intera giornata, secondo necessità o arbitrio dell’azienda. E stiamo parlando di lavoro gratuito! Che è poi il “nuovo gradino”, in basso ovviamente, costruito nella scala del lavoro. Di fatto, imprese e governo stanno cercando di imporre una standard per cui diventa “normale” che si cominci a lavorare senza essere neanche retribuiti, venedo ripagati con la speranza – e solo quella – che questo periodo faccia curriculum, facilitando una futura assunzione come apprendista, ecc. Lo confermano le numrrose sortite del ministro Poletti, che predica il lavoro gratuito per gli studenti durante l’estate. Ma anche il contratto dei bancari, in cui – secondo le richieste delle banche – i nuovi assunti avrebbero dovuto essere retribuiti con un salario inferiore del 18% rispetto a quello contrattuale. Il “compromesso” è stato raggiunto con un meccanismo chiamato di “solidarietà”, per cui i nuovi assunto saranno comunque pagati di meno, ma solo per l’8%; il restante 10% ce lo mettono gli altri lavoratori, che dovranno lavorare una giornata gratis per colmare la differenza! E l’idea del lavoro gratuito ritorna anche in altre proposte di”riforma” degli ammortizzatori sociali. In cui si comincia a ventilare la necessità di garantire un po’ di reddito (Reis) anche a disoccupati che hanno esaurito il periodo coperto dal “Naspi”. Ma solo per sei mesi e affidando al “terzo settore” il compito di “assistere” il malcapitato, ovvero di metterlo al lavoro senza una retribuzione adeguata alle funzioni che gli viene chiesto di svolgere. In pratica, un passo avanti verso il volontariato obbligatorio. È appena i caso di ricordare che quando si incontra un ossimoro ci si trova quasi sempre davanti a una truffa (vi ricordate della “guerra umanitaria”?). Viene insomma sancita una separazione – questa davvero storica – tra lavoro e salario. L’idea è quella di “mettere al lavoro tutti”, ma di pagare soltanto quelli effettivamente indispensabili (nei settori di punta, dove si fanno i profitti veri), mentre per tutto il resto (dalle cure della persona alle grandi fiere come l’Expo) può bastare un’elemosina o una presa in giro.

 

Conoscenza messa disposizione del “che fare?”, dicevamo. E certo, nelle relazioni e nel dibattito, molte idee sono state prodotte per sfruttare le crepe esistenti, allargarle, creare varchi. Ma in tutti gli interventi è emersa la necessità primaria della costruzione dei rapporti di forza adeguati a rimettere in discussione un dominio altrimenti pieno da parte del capitale. Non c’è infatti legislazione o Costituzione che possa sostituire l’organizzazione dei lavoratori, in sindacato e in altre forme, nella difesa dei propri interessi. Perché solo quando questi interessi vengono fatti pesare con molta determinazione hanno la possibilità di diventare diritti.

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