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Basta con i contratti e col sindacato

Svuotamento della Costituzione e fine del “patto sociale” che la sorreggeva vanno di pari passo. Sempre.

In questo caso, senza alcun conflitto sociale vero, all’altezza della sfida. Decenni di “responsabilità” e “concertazione” da parte dei sindacati ufficiali hanno portato, sì, alla loro “complicità” auspicata anni fa da Maurizio Sacconi, ma quando sono arrivati in porto hanno dovuto scoprire che con questo era finitonon solo il loro viaggio, ma anche la loro funzione storica.

Ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha chiuso un’epoca rompendo una trattativa mai iniziata: «Per noi è un capitolo chiuso». Stava parlando in Assolombarda, con una quarantina di categorie di industriali aderenti alla “confederazione dei padroni”, tutte interessate dallo stesso problema: contratti nazionali scaduti o in scadenza, con lavoratori in sofferenza per la prolungata crisi economica, che ha bloccato i salari (o li ha fatti mediamente diminuire, se si tiene conto – com’è giusto fare – delle robuste sostituzioni di dipendenti prossimi alla pensione con giovani precari sottopagati), fatto calare l’occupazione, precipitato tanti nel vortice ambiguo della cassa integrazione (che è una misura per aiutare le aziende, non i lavoratori).

Categorie importanti per dimensioni aziendali e numero di dipendenti, come  chimici, alimentari, metalmeccanici, che devono dare dunque il “segno” dei rapporti tra capitale e lavoro in questo paese.

Il “capitolo chiuso” di Squinzi si riferisce esplicitamente ai contratti nazionali. Basta, non se ne faranno più. Quindi anche nessuna  “riforma del modello della contrattazione”, ovvero il tavolo perennemente aperto con le sole Cgil, Cisl e Uil. Saranno invece le singole categorie degli industriali a “proporre” – prendere o lasciare – proprie piattaforme di rinnovo. Confindustria provvederà a stendere un «decalogo di cose che si possono fare e non fare in eventuali trattative che ritenessero portare avanti. Le singole categorie sono libere, per chi ritiene di andare avanti, l’autonomia c’è».

Finita l’epoca delle discussioni e della (relativa) pari dignità tra aziende e lavoratori. Al centro di tutto, l’unico scopo legittimo, solo la competitività delle imprese. «Non abbiamo margini di manovra per poter proseguire un colloquio sui contratti nel modo tradizionale». Margini economici e normativi, evidentemente. Il che, tradotto in linguaggio comune, significa “non vi daremo un centesimo di più, semmai di meno” e “non abbiamo nulla di discutere sull’organizzazione e le modalità della produzione negli impianti”.

Comandiamo noi, punto e basta.

Chissà come devono sentirsi – il trio Camusso-Furlan-Barbagallo – nel veder definire le proprie moderatissime proposte come «prima di tutto irrealistiche sul piano monetario e poi anche per il futuro del nostro paese». E quindi «ci siamo resi conto dell’impossibilità di portare avanti qualunque trattativa con il sindacato».

Non chiedevano, in genere, nulla di sconvolgente. “Legare maggiormente il salario alla produttività”, che significa dare aumenti solo lì dove quell’aumento (che dipende dagli investimenti dell’azienda) viene registrato. Oppure lo scarto tra Ipca (indice dell’inflazione attesa, che fa da riferimento perdente per ogni rinnovo contrattuale) e l’inflazione reale (le imprese, negli ultimi anni, si sono risparmiate mediamente tra i 70 e gli 80 euro mensili per ogni dipendente).

Ma il clima politico è cambiato. Il Jobs Act dà strumenti potentissimi alle aziende, a partire dalla derogabilità totale dai contratti e persino dalla legislazione vigente; ma soprattutto ha convinto gli imprenditori che il governo è totalmente con loro e contro i sindacati. Che a questo punto possono essere scaricati senza problemi. E prevedibilmente senza alcuna umento della conflittualità, perché appare improbabile – anche a noi – che i lavoratori, svenduti per decenni da funzionari preoccupati soltanto di aumentarsi lo stipendio ed esercitare “un ruolo nella società che conta” – possano scendere in lotta per dfendere la Triplice anziché se stessi.

Non a caso i rumors di palazzo, da giorni, parlano di introduzione del “salario minimo”. Ovviamente fissato dal governo in accordo con Confindustria. Bisogna ricordare che il modello di fissazione dei livelli salariali vigente fin qui in Italia era invece fondato sulla contrattazione tra le parti, con ovvie oscillazioni tra periodi di forte conflittualità operaia (e relativo innalzamento salariale) e lunghi periodi di stasi (in cui, come dal 1980 a oggi) diminuivano.

La contrattazione nazionale di categoria, sul piano salariale, serviva in effetti a fissare il livello minimo anche per quelle imprese che non hanno un numero di dipendenti tale da consentire una contrattazione aziendale. Una forma di difesa dei più deboli, a tutti gli effetti, che senza contrattazione nazionale non sarebbe più possibile, permettendo a qualsia imprenditore di fissare una retribuzione a piacere (ovviamente sotto i livelli minimi vitali).

Il salario minimo serve a fissare un “minimo di legge”, anche se ampiamente derogabile nel rapporto individuale. Sembra una genialata, alle aziende e al governo. E nell’immediato, dati i rapporti di forza sociali, lo è anche. Ma è chiaro che trasforma immediatamente la questione salariale in una questione politica, perché investe direttamente il governo del paese.

E’ comunque, al momento, la distruzione del “patto sociale” – costituzionalizzato – che ha guidato il conflitto sindacale e politico per 70 anni. Ora siamo in terra incognita, la Triplice si avvia a diventare una succursale degli uffici del personale a livello aziendale.

Ma anche il sindacalismo di base, o conflittuale, deve immediatamente rifare il punto della situazione. Perché in un altro mondo vigono altre regole, e ogni organizzazione esistente si è strutturata nel mondo che da oggi non c’è più.

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