Sedici centesimi è l’importo medio lordo giornaliero corrispondente all’aumento contrattuale mensile previsto dal governo Renzi per i contratti dei lavoratori pubblici (5 euro) diviso per trenta giorni. Come spendere una cifra così impegnativa?
Per prima cosa devo averla in tasca e quindi mi reco ad un bancomat ed inserisco nell’apposita fessura il tesserino elettronico rilasciatomi dalla banca, oggetto ormai indispensabile nella vita quotidiana tranne per chi gira con tremila euro nel portafoglio ma ha il problema di non poterli spendere tutti insieme, una seccatura a cui il governo Renzi è intenzionato a porre rimedio elevando nella prossima Legge di Stabilità proprio a tremila euro il limite per l’uso del contante.
Poco importa se questo favorirà una maggiore evasione fiscale.
Ma torniamo al bancomat. Provo inutilmente ad impostare la cifra di sedici centesimi ma l’apparecchio si rifiuta di prenderla in considerazione. Riprovo più volte e alla fine appare inaspettatamente la scritta – “Ma insomma, mi stai prendendo per il culo?”. Rispondo che siamo noi lavoratrici e lavoratori del pubblico impiego ad essere presi in giro, perché abbiamo i contratti bloccati da sei anni e in questo tempo, calcolando la sola inflazione, ci abbiamo rimesso una media di seimilacinquecento euro a testa, mentre il governo ci offre sedici centesimi al giorno dal 2016 al 2018! Mi accorgo di stare a parlare con un dispositivo inanimato e con amarezza e confusione ritiro il mio tesserino e mi allontano.
Mi viene un groppo alla gola, un misto di pianto e rabbia. Entro da un tabaccaio e compro un pacchetto di fazzolettini di carta. Mi chiede trenta centesimi, in pratica due giornate di aumento contrattuale. La rabbia è sempre più forte. A questo punto comincio a camminare e non posso fare a meno, guardando le vetrine dei negozi, di considerare quante giornate di aumento contrattuale ci vogliono per acquistare la merce esposta. Un jeans a 49 euro (307 giornate); un libro a 16 euro (100 giornate); un chilo di mele a 1,80 euro (12 giornate). Mi viene in mente che non potrei mai dare sedici centesimi al povero cristo che si mette a caritare davanti al supermercato del mio quartiere o al lavavetri che mi aspetta ogni mattina al semaforo mentre vado al lavoro, perché mi sembrerebbe di offendere la loro dignità. Perché allora il governo offende la mia?
Mentre cammino alzo lo sguardo e m’imbatto in un manifesto con la faccia sorridente del presidente del consiglio e lo slogan “L’Italia riparte”. Mi viene da pensare che a ripartire è ancora una volta chi sfrutta il lavoro degli altri per accumulare profitti, chi evade le tasse e non paga i contributi, chi approfitta della propria funzione per elargire favori a pagamento alimentando la corruzione. A ripartire è l’Italia peggiore, quella disonesta e legata al potere politico, mentre gli onesti restano fermi alla stazione della crisi aspettando un treno di giustizia sociale. Avessi sedici centesimi in tasca li scaglierei contro quel manifesto con tutta la rabbia che ho in corpo.
Buttando lo sguardo più in là scopro un altro manifesto. In questo ci sono scritte parole come “Rivendichiamo servizi e dignità”, “Stop alla precarietà e no al blocco dei contratti”, “No all’insulto dei 5 euro”, ma soprattutto “Uniamo le lotte”. C’è l’indicazione di uno sciopero generale nazionale del lavoro pubblico proclamato dalla USB per venerdì 20 novembre con manifestazioni a Milano, Roma e Napoli. Non è che partecipi volentieri agli scioperi e ancora meno alle manifestazioni, anch’io come tanti penso che ormai scioperi e manifestazioni servano a poco perché chi governa se ne infischia di chi protesta e poi non basterebbe portare in piazza neanche un milione di lavoratori pubblici perché si direbbe che altri due milioni sono rimasti a casa. Questi hanno sotterrato ogni regola democratica.
Però la rabbia che ho dentro è tanta. Ci mandano in pensione a settant’anni e ai giovani non danno lavoro. Ci tengono bloccati gli stipendi e quando li sbloccano c’insultano con aumenti contrattuali miserabili. Non c’è più neanche la sicurezza del posto di lavoro. Ci possono mandare in mobilità dove vogliono e ci ricattano con codici disciplinari sempre più restrittivi. Si amplificano ad arte episodi di malcostume, che pure vanno drasticamente sanzionati, per generalizzare l’idea che tutti i lavoratori pubblici sono assenteisti e corrotti. Ci tolgono la dignità e il lavoro privatizzando i servizi che eroghiamo attraverso le amministrazioni in cui lavoriamo.
Ma sì, questa volta voglio scioperare anch’io. Se stanno cercando di cancellare il diritto di sciopero o di renderlo sempre più difficile da praticare, o attaccano addirittura il diritto di assemblea come è accaduto di recente al Colosseo a Roma, vuol dire che vale ancora la pena di protestare e che scioperare dà fastidio, al di là di quello che ci vogliono far credere. E adesso che ho deciso di scioperare provo meno frustrazione e rassegnazione e sento di poter dare un senso alla mia rabbia. A casa mi collego al sito della USB e scopro che il Questore ha vietato il corteo a Roma per il 20 novembre perché attraversando arterie centrali della città potrebbe determinare malumori tra passanti e turisti con il pericolo di reazioni estemporanee. Ma se i palazzi del potere sono nella zona centrale della capitale, dove dovrebbero essere fatte le manifestazioni, fuori del raccordo anulare? Questa cosa mi convince ancora di più a scioperare e ad andare anche alla manifestazione, ovunque si farà. Siamo alla dittatura e la democrazia va difesa senza delegare ad altri la lotta.
USB Pubblico Impiego
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