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Contratto delle telecomunicazioni. Sale la rabbia tra i lavoratori

Nella giornata del 13 dicembre ’16 si è svolto lo sciopero NAZIONALE del settore delle TELECOMUNICAZIONI, auspicato e inseguito dei lavoratori autoconvocati, le cosiddette “giubbe rosse”, promosso e sostenuto dai sindacati di base con presidio a Piazza Barberini, iniziato lo scorso 24 novembre con sit-in e proteste nelle principali città.

Il malumore è via via andato crescendo dopo l’arrivo del nuovo AD Flavio Cattaneo e dal suo Cda, il quale solo accettando l’incarico ha incassato un Bonus di ingresso di milioni di euro, oltre quello di uno Special Award, come approvato dal Consiglio di amministrazione di 55 milioni di euro, di cui 40 milioni solo a Cattaneo, il tutto a discapito dei lavoratori che in pochi mesi si sono visti disdire il Contratto di 2° livello, ulteriori tagli ai salari grazie all’applicazione del Contratto di Solidarietà, già in essere da 5 anni, riduzione dei permessi retribuiti annuali, demansionamenti di 2 livelli con la conseguente perdita della dignità del lavoro, peggioramento degli orari lavorativi, riduzione dei giorni di ferie, congelamento degli aumenti periodici di anzianità, azzeramento del premio annuo (quota ex 14ª mensilità) per i neo assunti.

Infatti i sacrifici richiesti ai lavoratori consentirà all’AD Cattaneo il raggiungimento dell’obbiettivo pianificati per il biennio 2016-2018, ovvero un taglio dei costi per 1,6 miliardi, per portare a casa il suo bottino di 40 milioni, sotto forma per l’80% in azioni Telecom (oggi un’azione vale circa 1 euro, ma se gli obiettivi del piano verranno raggiunti è probabile che il titolo salga, anche di parecchio, basta pensare che circa cinque anni fa un’azione Telecom valeva circa 4 euro, il quadruplo rispetto a oggi), l’altro 20% verrà dato cash. Un bel gruzzoletto che si va ad aggiungere allo stipendio che è circa di 1,5 milioni di euro.

Purtroppo, come ormai registriamo da quando si decise di privatizzare l’azienda, l’attuale management continua a scaricare le proprie responsabilità e quelle di chi li ha preceduti sui lavoratori, senza aver presentato un vero progetto industriale, perseguendo il solo obiettivo finanziario legato principalmente al risparmio sui costi dei Dipendenti e distribuendo premi e denaro ai massimi dirigenti.

La privatizzazione della TELECOM vent’anni fa, fu una delle pagine di politica economica del nostro paese, una scelta che stiamo ancora scontando in termini di ritardi, soprattutto se consideriamo l’attuale penetrazione della banda ultralarga nel nostro Paese. Siamo a livelli da terzo mondo, con appena il 26% della popolazione che ha accesso a connessioni a 30 Mbps, contro la media europea del 68%. Quella larga di banda (fra i 2 e i 20 Mbps), dove raggiungiamo appena il resto del continente.

Infatti nel 1997 quando il Governo Prodi si liberò della quota di controllo di uno dei più importanti operatori mondiali di tlc (il 35,26% di Telecom era infatti nelle mani del Ministero del Tesoro). Da quel momento si alterneranno alla guida del colosso alcuni dei volti più noti del capitalismo italiano, come i famigerati “capitani coraggiosi” di Prodi e D’Alema, che hanno successivamente lasciato Telecom e la rete in rame agli spagnoli di Telefonica, per giunta con oltre 30 miliardi di debito (per loro l’operazione fu ben più redditizia ovviamente).

Oggi Telecom Italia è invece in mani francesi, con la quota di Vivendi che è si avvicina sempre più al 25%, fette di mercato in perenne discesa rispetto i concorrenti e un nuovo amministratore delegato, Flavio Cattaneo (ex direttore generale Rai e ad di Terna sotto i governi Berlusconi), che si sta distinguendo per una rigidità senza precedenti nel contenimento dei costi e nella gestione dei rapporti con i quasi 50.000 dipendenti.

Assurdamente quando la stessa Vivendi intenta la scalata di Mediaset, risveglia nei politicanti nostrani, il senso di Italianità, mentre la stessa percezione e coerenza non si è vista quando si è venduta la quota di maggioranza di una vera azienda “strategica” come Telecom .

Con la scalata di Mediaset si conferma la teoria della strategia di Vivendi, ovvero quella di “usare” Telecom Italia come strumento per veicolare i propri contenuti diretto nel settore dei media italiani, garantendosi un dominio come player sul mercato del sud Europa, “senza rivali”, e quindi con ricavi stabili, con la garanzia di dividendi garantiti minimizzando gli investimenti.

E se è vero che la digitalizzazione dell’economia è un orientamento ormai accertato (dal commercio ai servizi, fino ai rapporti con la pubblica amministrazione), la gestione recente delle tlc nel nostro Paese assume contorni tragicomici: pensare che dei privati, per giunta stranieri, potessero impegnarsi adeguatamente in un settore caratterizzato dalla necessità di grandi investimenti, spesso ritenuti superati nel giro di pochi anni e con tempi di recupero molto elevati, dimostra come l’ideologia liberista del libero mercato sia la capolinea.

Il furbesco tentativo di correre ai ripari, utilizzando circa quattro miliardi di fondi europei per costruire un’infrastruttura pubblica (ENEL) in grado di assicurare prestazioni fra i 30 e i 100 Mbps, ma solo nelle aree cosiddette “a fallimento di mercato”, 7.300 comuni italiani su un totale di 8.000, dove i privati non hanno tuttora interesse a fornire un servizio ormai considerato indispensabile (visti i costi elevati o la ridotta presenza di potenziali clienti), dimostra che per portare in più del 90% dei comuni, una connessione internet decente c’è bisogno dello Stato.

La situazione della crisi del settore coinvolge anche le due società di call center Almaviva e Gepin dove sono state avviate le procedure di licenziamento per oltre 3500 lavoratori, dove come USB chiediamo la messa al bando delle gare al massimo ribasso, la re-internalizzazione dei lavoratori e dei servizi presso i propri committenti, una reale clausola sociale che tuteli i diritti e occupazione nei casi di cambio appalto.

Come per il settore dell’informatica dove la politica di privatizzazione e svendita ha impoverito il tessuto tecnologico e produttivo come i centri di ricerca e sviluppo come IBM, ITALTEL, TELECOM e ecc., con i quali si riusciva a competere con gli altri grandi operatori europei.

Sul fonte sindacale si registra da una parte l’atteggiamento conciliante da parte dei sindacati CGIL-CISL-UIL, nel quadro degli accordi confederali a suo tempo sottoscritti come il protocollo delle relazioni industriali il 23 giugno 2016, l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del Testo Unico della rappresentanza del 10 gennaio 2015.

Dall’altra parte i sindacati di base come l’USB che sostengono le legittime rivendicazione dei lavoratori per ottenere condizioni di lavoro migliori per tutti (salario, inquadramento, normativa), PER UN NUOVO CONTROLLO PUBBLICO delle Telecomunicazioni, per chiudere definitivamente la disastrosa stagione della privatizzazione che hanno permesso lo smantellamento di un settore strategico per il paese sia in materia di sicurezza nazionale che di reale servizio per buona parte dei cittadini a vantaggio di multinazionali straniere.

Le TLC sono infrastrutture essenziali e strategiche al pari di energia e trasporti, non possono essere gestite in base alla logica del profitto a scapito dei diritti dei lavoratori e dell’accesso alla comunicazione con costi e servizi orientati a favorire la popolazione.

PER LA RI-NAZIONALIZZAZIONE DI TELECOM ITALIA UNA E PUBBLICA

PER LA DEMOCRAZIA , LO SVILUPPO, IL LAVORO

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