“Disintermediare significa saltare o almeno limare il ruolo del sindacato nel rapporto tra lavoro e azienda”.
Il Movimento 5 Stelle raggiunge così il PD(R) nell’idea di lasciare lavoratrici e lavoratori soli nelle fauci del padronato (piccolo o grande, pubblico o privato, sempre di padronato e di sfruttamento si tratta).
Il Sindacato considerato semplicemente una “incrostazione burocratica” da eliminare più o meno “tout court”.
Un’altra facile opzione di stampo “ventre molle della borghesia parassitaria”: non si può che definirla così, in termini antichi ma sempre nuovi.
A renderla facile e popolare però ha contribuito nel corso degli anni anche lo stesso sindacato confederale attraverso il meccanismo della concertazione e, di conseguenza, della corresponsabilità nell’arretramento storico del mondo del lavoro imposto dalla fase di gestione del ciclo capitalistico denominato “globalizzazione” (oggi WTO, FMI e Banca Mondiale ammettono i “danni collaterali” provocati n questo senso) .
Inoltre il sindacato confederale ha accentuato il livello di costruzione di una rete di privilegi, di foraggiamenti (come quelli derivanti dagli enti bilaterali) di varie complicità che, alla fine, hanno aperto la strada a un duplice attacco: quello del “metodo Marchionne” da un lato e quello della disaffezione dei lavoratori che ha proceduto di pari passo con la disaffezione della politica e, in particolare, dalla politica della sinistra.
Come rispondere allora, se non è già troppo tardi?
Anche in questa occasione intendiamo, come ci è capitato in altre occasioni, di apparire ostinati custodi della memoria, incapaci di vedere il “nuovo che avanza” e quindi di limitarci a proporre una sorta di “ritorno al futuro”.
Intendiamo però correre il rischio rammentando, prima di tutto a noi stessi e poi a qualcuno che può mantenere viva la stessa memoria, quali erano i pilastri di quel sindacato unitario che abbiamo, in altri tempi, cercare di definire come “soggetto politico” a tutto tondo.
Non sviluppiamo in questa sede la storia del sindacato italiano, la sua nascita parallela (a differenza di altre situazioni in Europa) alla formazione dei grandi partiti socialisti di massa, al fatto che accanto alle rivendicazioni puramente sindacali si situassero, sullo stesso terreno di lotta, le rivendicazioni di tipo politico: la libertà d'associazione, la libertà di stampa, l'allargamento del suffragio (quanti ricordano che, al momento della proclamazione del Regno d'Italia il diritto di voto era riservato a meno del 2% dei cittadini, in un paese con l'analfabetismo all'80% ?).
Poi, nel secondo dopoguerra, le diverse fasi della rottura e del recupero dell'unità sindacale, le grandi battaglie degli anni'50 in difesa delle fabbriche nella tormentata temperie della riconversione dell'industria bellica e dell'intervento pubblico, poi il “boom”, il consumismo (elemento sul quale andrebbe aperta una riflessione sincera e spregiudicata), la migrazione biblica dal Nord al Sud, l'avanzamento sociale, l'allargamento del terreno dei diritti.
Quale può essere, allora, il senso di questa estrema sintesi di ricostruzione storica?
Appunto, quello, di ricordare i pilastri su cui poggiava il sindacato italiano: non perché oggi si possa recuperare quella realtà, ma come punto di riferimento, nozione di idea-guida, tentativo di mostrare, partendo dal passato, un possibile campo di scelta.
Passiamo a elencare quelli che abbiamo definito “ i tre pilastri”:
1) Il Contratto Collettivo nazionale di categoria: lo smantellamento di questo istituto ha rappresentato, prima ancora che sul piano normativo ed economico, il punto esiziale per il riconoscimento di un sindacato nazionale che ha, sempre e comunque, la sua ragion d'essere; il decentramento sotto questo aspetto, che pure poteva rappresentare parzialmente un momento di grande interesse nello sviluppo di vertenze d'azienda e territoriali, non doveva sostituire il momento fondamentale di un sindacato unitario come quello rappresentato dal contratto collettivo nazionale di categoria;
2) La scala mobile. Oggi, a distanza di tanti anni, credo si comprenda meglio il valore di quella battaglia perduta e ci permettiamo di non aggiungere altro in tempi dove la crescita inflazionistica non è temperata da alcuno strumento;
3) La rappresentanza di tipo “consiliare” all'interno dei luoghi di lavoro. Senza alcun accento nostalgico (di cui pure ci potrebbe essere ragione) è necessario ricordare come l'unità sindacale possa poggiare soltanto su di un’unità di base che i “consigli” erano in grado di assicurare, pur dentro ad un dibattito acceso, non unanimistico, che rifiutava – ed è questo un altro punto decisivo- il neo corporativismo e lo straccio della “concertazione” ( Concertazione da distinguere bene dalla politica dei redditi).
Potremmo ricordare, ancora, come la presenza contemporanea di questi tre elementi ( il contratto collettivo garantito dallo Statuto dei Lavoratori; la scala mobile, ricordando l'accordo Lama-Agnelli; il sindacato dei consigli emerso dalla grande stagione del 68-69) coincise con il momento più forte e più alto della presenza sindacale nel nostro Paese, e di avanzamento delle ragioni dei diritti e del miglioramento della qualità della vita per tutti, non soltanto per i lavoratori dipendenti.
Qualcuno obietterà: c'era la classe operaia.
Giustissimo, e la classe operaia era legata a una idea di sviluppo industriale che il nostro Paese, a differenza di altri partner europei, ha abbandonato da tempo: siamo privi, per diverse ragioni, di chimica, elettronica, agroalimentare, importiamo siderurgia. Non esiste un piano industriale strategico. Non si è tenuto conto di quanto l’innovazione tecnologica richiedesse sul terreno della riconversione. Sono mancate pianificazione e programmazione: strumenti sempre validi in qualunque circostanza. Se non programmi tu lo fanno gli altri, sempre a loro esclusivo vantaggio ammantando il tutto di belle parole magari dal significato apparentemente recondito come questa di “intermediazione”.
Domanda conclusiva: saranno superati e obsoleti quei “pilastri del sindacato” che ci siamo permessi di ricordare in questa occasione, così come si cerca di far intendere da chi evidentemente ha il solo scopo di lasciare ancor più mano libera agli anticamente denominati “padroni del vapore”?
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Eros Barone
"Contropiano" dovrebbe cercare di mettere d'accordo le giuste considerazioni esposte da Franco Astengo in questo intervento e le dichiarazioni fatte da Giorgio Cremaschi (che riporto dal sito del "Corsera" di oggi, 11 aprile). Cremaschi dice di «guardare con interesse ai Cinque Stelle, come tutti gli italiani in questo momento». Aggiunge che il «sindacato è essenziale, come essenziale è il suo rinnovamento», e spiega le tre modifiche che propone. La prima: nelle aziende tutti i lavoratori devono potere eleggere i loro rappresentanti ed essere eletti nelle organizzazioni sindacali, senza limitare il diritto alle sigle che hanno già firmato accordi. La seconda è l’azzeramento delle tessere sindacali ogni 4 anni, «senza quei rinnovi silenziosi che si prestano a pratiche ambigue». La terza è «l’eliminazione di qualsiasi forma di finanziamento indiretto, da parte dello Stato o delle aziende». E la famosa disintermediazione? «Mah, è una parola sbagliata. Spero non vogliano inseguire Renzi su questo terreno». Lei non ne parla nel video? «No, ma io mi limito a una spiegazione tecnica. Cosa fare lo decideranno gli iscritti al Movimento. Anzi lui, Beppe Grillo». Anzi lui, Beppe Grillo… E' grave non essere in grado di distinguere tra forze reazionarie, àmbito cui appartiene per idee, programmi e 'modus operandi' il M5S, e forze progressiste. Ma gli errori nell'analisi determinano, come è noto, errori micidiali nell'orientamento politico.