Quando qualche anno fa, all’epoca del primo governo Conte, ci ritrovammo da soli a sostenere la proposta della ministra Nunzia Catalfo sull’introduzione del salario minimo orario per legge a 9 euro, eravamo colpiti dall’indifferenza che Cgil, Cisl e Uil nonché l’insieme dell’arco parlamentare manifestava di fronte a quella che già allora era una vera emergenza nazionale, la questione salariale.
Oggi, dopo la crisi pandemica e a seguito della impennata dei prezzi provocata dalla guerra in Ucraina e dal moltiplicarsi delle tensioni internazionali, il tema dei salari è ormai ineludibile e tutti sono costretti a misurarcisi.
In altri paesi, dalla Spagna alla Germania, è già da tempo nell’agenda politica e i governi e i parlamenti hanno preso decisioni che vanno in direzione di un rialzo dei minimi salariali. In Italia invece siamo ancora al chiacchiericcio.
I padroni sono contrari, ed è anche abbastanza normale. L’Italia vanta una lunga tradizione di sfruttamento e autentica spremitura dei lavoratori per recuperare sul costo del lavoro quello che altre economie raggiungono attraverso ammodernamenti tecnologici e dell’organizzazione del lavoro.
Questa politica miope delle classi dirigenti del nostro paese, a forte attitudine parassitaria, ha portato a una progressiva deindustrializzazione e a una crescita delle attività povere, dove i salari sono più bassi e sono più diffuse la precarietà e la decontrattualizzazione.
Per reggere la concorrenza internazionale, soprattutto da quando siamo entrati in regime di moneta unica e le svalutazioni non sono state più possibili, tenere bassi i salari è stato sempre un imperativo e questo spiega perché siamo l’unico paese occidentale a registrare un calo del salario medio (quasi -3%) rispetto a trent’anni fa, mentre tutti gli altri paesi dell’OCSE hanno avuto aumenti anche del 20 o 40%.
Il fronte padronale però se ne infischia dei dati e della drammaticità della situazione in cui versano milioni di lavoratori. Ha due obiettivi precisi: da un lato eliminare il reddito di cittadinanza di cui ha intuito la capacità di condizionamento della dinamica salariale, dall’altra utilizzare le risorse pubbliche per far fronte ai prossimi rinnovi contrattuali.
Per Bonomi il reddito di cittadinanza deve essere uno strumento che vincola il percettore ad accettare qualsiasi offerta di lavoro a qualsiasi condizione, un’arma che pieghi milioni di lavoratori ad accettare salari da fame. Le condizionalità odiose che già ne impediscono una diffusione più ampia per Bonomi dovrebbero essere ampliate, altrimenti meglio eliminarlo come chiedono Brunetta e Renzi.
Sul fronte dei contratti, invece, l’idea partorita dai padroni (ma al governo sono in molti a pensarla come loro) è che gli aumenti dovrebbero ricavarsi da una minore contribuzione ed essere quindi a carico della collettività.
Dal governatore della Banca d’Italia Visco al ministro del Lavoro Orlando fino ai segretari Cgil Cisl e Uil il tema dei salari troppo bassi invece sembra ormai riconosciuto. Anche il presidente Mattarella ne aveva parlato recentemente e, soprattutto, a spingere in questa direzione è ora l’UE con una direttiva di prossima pubblicazione.
Proprio la direttiva europea rappresenta la cornice di riferimento della “narrazione” ufficiale in materia di salario minimo. Essa stimola i governi e i parlamenti della UE ad approvare delle leggi che riconoscano il salario minimo per legge sulla base della presa d’atto di una questione salariale in tutto il continente, ma poi evita di fare il passo successivo, cioè stabilire qual è il livello salariale minimo su scala europea a cui i diversi paesi dovrebbero adattarsi.
Né prescrive che ogni paese debba stabilirlo in proprio, giacché lascia liberi i legislatori di scegliere tra una soglia minima sotto la quale non poter scendere oppure ricorrere al meccanismo della contrattazione.
In Italia, lasciare libero il legislatore di approvare una legge sul salario minimo che rimandi alla contrattazione significa lasciare quasi inalterate le cose. Il “quasi” si riferisce alla messa in mora della contrattazione pirata, quella cioè realizzata da organizzazioni datoriali e sindacali assai poco rappresentative, che hanno stipulato negli anni centinaia di contratti nazionali con livelli salariali molto bassi.
È su questo che concentrano la loro attenzione Cgil Cisl e Uil, che vorrebbero portare a casa dalla discussione sul salario minimo non un rialzo dei salari ma una legge sulla rappresentanza che sancisca che sono “loro” gli unici soggetti deputati alla stipula dei contratti.
È bene sapere che a tenere bassi i salari non sono solo i contratti pirata ma soprattutto quelli firmati da Cgil, Cisl e Uil, come documentò con precisione il presidente dell’Inps Tridico quando pubblicò la tabella dei 10 contratti più utilizzati (tutti firmati dalla triplice), tutti con i minimi salariali ben sotto la soglia dei 9 euro. Colpire i contratti pirata, quindi, non risolverebbe il problema ma sarebbe solo un flebile palliativo.
Per colpire i contratti pirata, però, c’è bisogno di introdurre una legge sulla rappresentanza, una legge cioè che stabilisca criteri oggettivi per calcolare la rappresentatività delle organizzazioni e che contemporaneamente vincoli le aziende al rispetto di quel contratto di settore, invece del libero arbitrio tutt’oggi vigente, in cui ogni azienda si sceglie il contratto che preferisce.
Ma anche questo è un tema che né Cgil, Cisl e Uil né Confindustria gradiscono, tant’è che nel 2014 pattuirono tra loro un accordo interconfederale per dettare le regole delle elezioni RSU nel settore privato. Anche in quell’occasione l’argomento preferito era che su certi temi bisogna lasciare spazio alla contrattazione e lo Stato non deve interferire (che è poi lo stesso argomento con il quale contestano l’introduzione di una legge sul salario minimo).
Quell’accordo però non poteva avere alcun riconoscimento di legge e non poteva risolvere il tema della rappresentatività. E ora, con la direttiva europea che comunque obbliga all’adozione di una legge sul salario minimo, il problema si ripresenta.
Il salario minimo, quindi, è come una sorta di matrioska, nella quale non puoi risolvere una questione se non sei disposto ad affrontarne contemporaneamente diverse altre che però finiscono per chiamare in causa l’intero sistema di relazioni industriali del nostro paese. Il balbettio di Cgil Cisl e Uil su questo tema dipende da questi fattori.
La proposta di USB
La nostra proposta è semplice: 10 euro come soglia minima da rispettare in ogni CCNL, il Minimo Tabellare a cui devono corrispondere i salari dei livelli più bassi (a meno che ovviamente non esistano già contratti di maggior favore).
Insistiamo molto sul riferimento ai Minimi Tabellari perché costituisce la formula più semplice per evitare contenziosi ed interpretazioni equivoche con i datori di lavoro. Dall’approvazione della legge le parti avrebbero un tempo, da sei mesi a un anno, per adeguare i contratti alle nuove condizioni.
La legge avrebbe pertanto un effetto immediato di impulso alla contrattazione nel segno del rialzo dei salari (e non solo di quelli minimi, giacché gli altri livelli andrebbero adeguati in proporzione).
Ovviamente la legge dovrebbe prevedere un meccanismo di adeguamento annuale o biennale in base all’andamento del costo della vita, con un riferimento a indici dei prezzi in cui siano considerati tutti i beni essenziali che influiscono sulla vita di un lavoratore.
Ma accanto a una legge sul salario minimo, che nella nostra formulazione non richiederebbe necessariamente il ricorso ad altri dispositivi legislativi e funzionerebbe perfettamente all’interno del quadro di regole vigenti, sarebbero necessari almeno altri due provvedimenti: uno di forte contenimento dei contratti a tempo determinato, che ne limiti l’uso e li vincoli a specifiche condizioni; e un altro che combatta l’uso del part time involontario e ne rialzi fortemente la soglia oraria minima.
Sul fronte della rappresentanza da anni ci battiamo per una legge che garantisca a tutte le organizzazioni le stesse opportunità, che sia democratica e pluralista, che non leghi le agibilità sindacali solo a chi accetta di firmare qualsiasi contratto e che chiuda con la decennale pratica del monopolio della rappresentanza riservato a chi è gradito alle controparti.
Un pacchetto di regole semplici ma poco digeribili sia per i padroni che per i sindacati concertativi, ma anche un campo di battaglia politica e sociale per ripristinare uno spazio di democrazia nei posti di lavoro.
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