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Processo Gugliotta: condannati 9 poliziotti

Il vento intorno alla malapolizia sta cambiando e oggi, con la sentenza di primo grado del processo Gugliotta è arrivata la conferma.
Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Andrea Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani e Michele Costanzo sono i nove poliziotti che avevano pestato Stefano Gugliotta nei pressi dello stadio Olimpico, la sera del 5 maggio del 2010, dopo la finale di coppa Italia Roma-Inter. Dopo le botte, Stefano era stato arrestato e trattenuto in carcere per una settimana, senza che i familiari avessero notizie sul suo conto. Esattamente come accadde con Stefano Cucchi. 
La differenza è che Stefano Gugliotta è sopravvissuto e ha potuto portare avanti personalmente la battaglia legale contro i suoi torturatori. L’incubo per Stefano Gugliotta oggi è finito. Il giudice Vincenzo Terranova, presidente della X sezione penale del tribunale di Roma ha condannato i 9 poliziotti alla pena di quattro anni di reclusione, alla loro interdizione dai pubblici uffici per l’intera durata della pena, al risarcimento di 40.000 euro da corrispondere a Stefano in solido, nonché al pagamento delle spese processuali.
Il Pm Pierluigi Cipolla aveva invece chiesto 3 anni per Leonardo Mascia, che aveva dato il via al pestaggio, e due anni per tutti gli altri. Alla condanna già di per sé pesante, si accompagna l’impossibilità di esercitare le funzioni di pubblici ufficiali: non potranno vestire la divisa.
In altri tempi, per un reato del genere, ovvero lesioni gravi causate con «abuso di potere e violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione», il massimo cui la difesa di Gugliotta avrebbe potuto aspirare – con o senza video a corroborare in modo determinante la tesi del pestaggio – sarebbe stata una precipitosa archiviazione. La sentenza arrivata oggi dimostra, invece, che l’indipendenza degli organi inquirenti dalle forze di polizia è un obiettivo facilmente raggiungibile, e che è possibile istruire processi indirizzati alla trasparenza e all’effettivo conseguimento di quella giustizia che tutti i familiari coinvolti in casi di malapolizia inseguono per anni, a volte invano. Non è mai stato un mistero che la maggior parte dei processi sui morti per mano delle forze dell’ordine abbia risentito storicamente dei rapporti inquinati tra magistratura e polizie giudiziarie. Questa sentenza, crea un precedente assai importante, viola – si spera definitivamente – anche questo tabù, e indica un nuovo corso per i processi futuri e quelli ancora in corso.
Il corporativismo in divisa, che nei reparti mobili è particolarmente accentuato, comincia a sgretolarsi, smascherato da istruttorie efficaci e a prova di bomba. Le coperture reciproche tra colleghi, avallate anche dalle catene di comando, saltano miseramente.
Proprio il 15 maggio scorso il vice questore di Roma Massimo Improta, è stato rinviato a giudizio dallo stesso tribunale con le accuse di calunnia e falso, per aver firmato un verbale nel quale scagionava i poliziotti imputati. Per quanto riguarda Improta, se ne riparlerà il 15 luglio 2015. I lunghi e dolorosi percorsi di lotta, pagati a caro prezzo da tutti, a cominciare dalle famiglie, cominciano a portare i primi frutti. Ciò che in altri ordinamenti giuridici è garantito, soprattutto per ciò che concerne il contrasto agli abusi di polizia, qui da noi va conquistato passo dopo passo, sentenza dopo sentenza. C’è giudice e giudice. Il pensiero va al processo Cucchi, celebrato nello stesso tribunale dai pm Barba e Loy con esiti assai differenti da quanto visto oggi. E va anche al tribunale di Milano, dove proprio l’altro ieri il pubblico ministero titolare del processo Ferrulli ha chiesto 7 anni per i quattro poliziotti che pestarono Michele.
Questa mattina il clima di tensione in attesa della sentenza, ha assunto venature surreali con l’arrivo degli imputati, quasi in formazione, compatti, scuri in volto. E forse sicuri di un esito a loro favorevole. Pochi minuti dopo, un anomalo numero di poliziotti e carabinieri in divisa, di ogni ordine e grado comincia a riempire il fondo dell’aula per stringersi intorno ai colleghi imputati. Dall’altro lato dell’aula a circondare Stefano c’è la sua famiglia, e con loro Lucia Uva e Claudia Budroni, a testimoniare con la loro presenza, instancabilmente, la compattezza del fronte di lotta agli abusi di polizia. Alla lettura della sentenza Stefano esplode in un pianto liberatorio, un pianto di rabbia e gioia strozzato in gola per quattro lunghi anni. Oggi per lui, la bilancia pende dal lato giusto.

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