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Colpi accidentali e depistaggi. Parla il giudice del processo Aldrovandi

Il Consigliere della Corte d’Appello di Bologna Luca Ghedini è l’estensore della sentenza d’appello del processo sull’omicidio di Federico Aldrovandi. Descrivendo la vicenda, l’estensore della sentenza parlò esplicitamente di “manipolazioni ordite dai superiori” dei quattro assassini di Federico e di “modalità gratuitamente violente”, nei momenti in cui l’omicidio veniva consumato. Parole che confermavano i contenuti della celebre sentenza di primo grado, firmata dal giudice Caruso, e che trovavano riscontro anche successivamente in Cassazione dove i quattro poliziotti vennero definite “schegge impazzite”. Prendiamo avvio dall’ultimo episodio di malapolizia avvenuto a Napoli, dove nel ghetto del Rione Traiano un ragazzo di 17 anni, Davide Bifolco, è stato ucciso da “un colpo accidentale” sparato da un carabiniere. 

Dott. Ghedini, è successo ancora. Un giovane non si ferma a un posto di blocco e al culmine dell’inseguimento parte un “colpo accidentale”. Quando sente parlare di “colpi accidentali”, e la storia della malapolizia è piena di colpi partiti per sbaglio, quali valutazioni fa da cittadino prima, da magistrato poi? 

Da cittadino ma anche da magistrato – mi è difficile separare le due vesti – posso dire che non so se anche questa volta si è trattato del solito “colpo accidentale” tante, troppe volte partito da un’arma delle forze di polizia; di certo la situazione di degrado del Rione Traiano dove è maturato l’episodio non può certo essere considerata “accidentale”. Troppe aree del paese sono abbandonate dagli organi dello stato – gli stessi da cui, a volte, partono i colpi accidentali – al predominio della criminalità che si fa spazio grazie alla mancanza di alternative. Anche lì ci sarà del “grasso che cola”?

Non trova che sia un’anomalia il fatto che le indagini sull’evento vengano affidate all’Arma dei carabinieri, corpo di appartenenza dell’indagato? Cosa prevede la legge al riguardo? 

La legge nulla prevede; il “buon senso investigativo”, invece, dovrebbe prevedere che, quanto meno, le indagini in ordine ad un ipotesi di reato commessa da appartenenti ad un corpo di polizia vengano svolte da diverso organo investigativo. 

Nella vicenda Aldrovandi avvenne la medesima cosa. Sulla scena del delitto ad indagare c’erano i colleghi dei quattro che fermarono Federico. Noi riteniamo che le anomalie di tanti processi di malapolizia, derivino proprio dalla mancanza di indipendenza e oggettività nelle indagini. Un vero e proprio conflitto d’interessi e competenze: lei è d’accordo? 

La vicenda della morte di Federico Aldrovandi – avvenuta per l’accertato omicidio colposo ad opera dei quattro agenti della Polizia di Stato della Questura di Ferrara – è ancora diversa rispetto a quella in cui ha trovato la morte il giovane Davide Bifolco: infatti, sin dalle prime battute la Polizia di Stato – e di concerto la Procura della Repubblica competente – non procedettero ad indagine alcuna in ordine alle condotte dei quattro agenti, ma si indirizzarono – in tal senso orientando anche gli accertamenti medico legali – a tentare di dimostrare che la causa di morte di Aldrovandi poteva e doveva essere legata ad un preteso abuso di sostanze stupefacenti.

Nel “caso Aldrovandi” la “deviazione investigativa” è stata immediata ed assoluta, sin dalle prime ore di quella mattina del 25 settembre; il documentario di Filippo Vendemmiati “E’ stato morto un ragazzo”, che spero tutti abbiano visto, documenta con agghiacciante precisione l’affanno con il quale i colleghi dei quattro condannati cercavano, mentre il telefono di Federico Aldrovandi, che ancora giaceva sul selciato di via Ippodromo, squillava a vuoto per le chiamate dei genitori, prove della pretesa agitazione psico – motoria della quale il giovane sarebbe stato preda. 

Da giudice, come ha dovuto gestire tutti gli aspetti inerenti i depistaggi nel processo Aldrovandi? 

Come giudici d’appello, altro non abbiamo potuto fare che prendere atto delle dinamiche processuali già svoltesi e “consumatesi” nella fase delle indagini preliminari prima e del processo di primo grado poi. La forza e il coraggio delle parti civili e l’abile perseveranza del loro collegio difensivo ha fatto sì che nel corso del processo di primo grado, sia stato possibile squarciare il velo frapposto dai c.d. “depistaggi” della prima ora. Ciò che niente e nessuno ha potuto – o voluto – evitare è stata la sottovalutazione, dal punto di vista della configurazione giuridica, del fatto: è evidente – lo si legge “in trasparenza” nella stessa sentenza d’appello, che non di omicidio colposo per eccesso nell’uso della forza si è trattato, bensì di un’ipotesi quasi di scuola di omicidio preterintenzionale che come tale meritava di essere vagliato e giudicato. 

Nel caso di Davide Bifolco, cosa sarebbe auspicabile per preservare la trasparenza delle indagini?

Un Pubblico Ministero autonomo dalla polizia giudiziaria. In verità, il codice di procedura del 1989 aveva previsto l’istituzione di Sezioni di Polizia Giudiziaria presso le Procure della Repubblica, alle dirette dipendenze del Procuratore della Repubblica; purtroppo la previsione è stata svuotata di contenuto da un lato dalle ristrettezze degli organici assegnati e, dall’altro, dalla prassi distorta che ha visto molto spesso gli ufficiali di Polizia Giudiziaria addetti a funzioni di segreteria presso le Procure, a sollievo delle carenze di organico del personale amministrativo. Se, invece, nel corso degli anni si fosse sviluppata una forza di polizia giudiziaria autonoma dai comandi di provenienza, alle dirette e vere dipendenze del Pubblico Ministero, lo svolgimento di indagini nei confronti degli appartenenti ad altre forze dell’ordine sarebbe più facile.

A norma di legge, è esatto dire che l’imprinting del processo sarà determinato da quanto contenuto nei verbali dei carabinieri?

Si, ma non del tutto: un ruolo importante avranno anche gli accertamenti di natura tecnico – scientifica e, quindi, anche il livello di “autonomia” dei periti.

La prospettiva sociologica più accreditata per questo tipo di eventi delittuosi è che le vittime siano sempre cittadini ai margini della società. Il Rione Traiano a Napoli è soprannominato il “Bronx” ed è un posto, se possibile, peggiore di Scampia o dei Quartieri Spagnoli: spaccio, camorra, criminalità. Vivere in quei posti non significa necessariamente appartenere a certi ambienti, ma respirarli sì, sicuramente. Si può parlare di un conflitto sociale in atto tra fasce marginali o deviate della società e forze dell’ordine? 

Rischio di fare della sociologia d’accatto: il conflitto forse si crea nel momento in cui le forze dell’ordine non vengono – a torto o a ragione – più viste come portatrici di legalità.

Quali le soluzioni giuridiche e procedurali per garantire ai processi di malapolizia la massima trasparenza, ed evitare di arrivare a paradossi incredibili come il controllo assoluto del Pm Agostino Abate sul processo Uva, la morte violenta di Marcello Lonzi spacciata per infarto, o i proiettili deviati dai sassi? 

Dell’esigenza di una forza di polizia indipendente ho già accennato; come spesso accade nel nostro paese, “le norme ci sono, basta applicarle correttamente”: il processo Uva, ad esempio, ha mostrato in modo inequivocabile l’opacità dell’applicazione del modello organizzativo delle Procure della Repubblica. La Procura della Repubblica è configurata dal nostro ordinamento – giustamente, a mio avviso – come un ufficio gerarchico: nell’ambito della delega di un procedimento il sostituto procuratore è autonomo ma risponde al Procuratore Capo che, eventualmente, può ritirare la delega ed assegnarla ad altro magistrato. Grazie al documentario “Nei secoli fedele” ed alla diffusione delle videoregistrazioni, ad esempio, degli interrogatori del testimone Bigioggero e del senatore Manconi, tutti abbiamo potuto valutare il tipo e le modalità di conduzione delle indagini da parte di uno dei titolari delle indagini.

Perché non è stata ritirata la delega e perché la Procura Generale ha rigettato l’istanza di avocazione? Una ventina (e più, non tutto è iniziato con l’era Berlusconiana), di attacchi frontali alla magistratura ci ha tolto la capacità di guardare al nostro interno: è diventato più comodo auto assolverci da ogni “peccato” perché dovevamo difenderci da “attacchi esterni”.

Quanto incidono i rapporti tra magistratura e polizia giudiziaria?

Troppo.

L’elevato livello di attenzione raggiunto intorno alla malapolizia non sembra corrispondere a una diminuzione degli episodi né a una maggior consapevolezza da parte delle forze dell’ordine nella gestione di situazioni di crisi. Cosa manca perché si giunga a una “pacificazione” in questo senso? 

Una “rifondazione” delle forze di polizia e della loro formazione.

La gestione dei processi di malapolizia può essere la cartina di tornasole, una delle tante, dello stato in cui versa la giustizia italiana? 

Si, ma non è un sintomo così grave come la domanda sembra suggerire: io non credo che i casi di “malapolizia” un tempo fossero più rari di ora, tutt’altro; i processi ora si fanno, alcuni bene, molti male, ma almeno si fanno.

Il suo auspicio per il processo su Davide Bifolco e sui tanti ancora in corso…

Che parti offese e indagati possano avere un processo serio.

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