Sono stati tutti assolti gli imputati – sei medici, tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria – accusati e processati per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni, arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 e deceduto una settimana dopo al reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Lo ha deciso oggi pomeriggio la I Corte d’Assise d’Appello.
La formula adottata dal giudici è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530 “ovvero quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.
Il pg Mario Remus durante la sua requisitoria aveva invece chiesto ai magistrati di ribaltare la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto responsabili solo i medici per omicidio colposo, e di condannare tutti gli imputati.
Ma a grande sorpresa, la I Corte d’Assise d’Appello di Roma riesuma in aula un concetto che pareva sparito dai codici: l’assoluzione per insufficienza di prove.
Oggi, 31 ottobre 2014, la giustizia italiana ha stabilito che quella morte non ha colpevoli. In primo grado, ad essere condannati furono cinque medici per «mancate cure», e già allora sembrò assurdo. Dai banchi degli imputati – dopo l’eterno minuto di lettura della sentenza – si levarono due dita medie alzate al cielo, in direzione di Ilaria Cucchi, del suo avvocato Fabio Anselmo, degli altri parenti di Stefano. Eccola qui, la risposta degli uomini dello Stato: andate tutti affanculo. Chiaro.
D’altra parte, la sensazione di stare dentro un testo di Ionesco, nei casi di malapolizia, è sin troppo frequente: ci sono i fatti, ci sono le testimonianze, a volte ci sono addirittura i processi. Poi le conseguenze vanno contro ogni logica umana, i casi escono da una dimensione comprensibile per entrare nella sfera della metafisica di una giustizia che proprio non ce la fa a mettersi sotto il suo stesso giudizio ma riesce tranquillamente ad assolversi, sempre e comunque.
Se è vero – com’è vero – che la sinistra deve riappropriarsi del garantismo e della difesa dell’imputato davanti al moloch inscalfibile della Legge, è vero pure che non siamo tutti cretini: la domanda che si faceva alla Corte d’Assise era semplice – com’è morto Stefano Cucchi – e la risposta è stata altrettanto semplice, benché sconcertante: non si sa.
Il Comune di Roma ha annunciato la propria intenzione di intitolare una strada di Stefano Cucchi, e viene da chiedersi cosa ci scriveranno sotto: «vittima dello Stato»? A questo punto no. «Morto innocente all’ospedale Pertini»? Sarebbe ridicolo. Sarebbe molto più dignitoso scriverci che è morto di freddo, o per cause naturali, al limite che sono stati gli alieni. Ma così fa veramente male e quando domani chicchessia invocherà una qualche forma di rispetto istituzionale per le sentenze – che non si commentano, ma si rispettano, come dicono sempre i fanatici dell’inquisizione dei nostri giorni -, per i giudici e per i vari funzionari di una giustizia che in Italia forse non è mai esistita, come bisognerà rispondere?
Intanto la Corte annulla la sentenza di primo grado e ogni possibilità di arrivare a una conclusione degna per questo caso. Tutti assolti, tranne Stefano, condannato a morte.
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