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Scoppia il bubbone di Santa Maria Capua Vetere, carcere da tortura

Da alcuni giorni il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è al centro delle cronache per un susseguirsi di eventi che richiamano non solo la gestione autoritaria ed antisociale del sistema penale italiano ma, anche, uno “scontro” tra apparati dello Stato attorno a snodi significativi (la questione Giustizia) dell’agenda politica del nostro paese.

Ricapitoliamo, brevemente, i fatti:

nelle prime settimane dell’emergenza/Covid in molte carceri italiane ci sono state proteste e rivolte le quali sono state soffocate nel sangue e con un numero enorme di morti e di feriti. Come è tradizione della storia giudiziaria dell’Italia, ad una legittima preoccupazione da parte dei detenuti verso un pericolo di contagio sanitario di cui nulla si conosceva, e nei confronti di una diffusa collera per l’improvvisa abolizione di colloqui e contatti con le famiglie, lo Stato ha ritenuto di risolvere questa “complicazione” con l’uso massiccio della forza. A manganellate, insomma.

In quasi tutti gli istituti di pena italiani le proteste sono state risolte manu militari, con il placet del Ministero di Grazia e Giustizia e dell’intero governo, mentre gli strateghi della comunicazione hanno coperto immediatamente la mattanza, prima opacizzando e mistificando sulle ragioni di queste proteste e, subito dopo, rimuovendo totalmente dalle cronache quotidiane il grande numero di morti causato da tali modalità di intervento.

A Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile scorso, nell’ambito delle operazioni di “ripristino dell’ordine nel locale carceregli squadroni della Polizia Penitenziaria si sono scatenati nell’uso della repressione ed hanno prodotto un intervento violentissimo a base di teste fracassate, umiliazioni fisiche e psichiche di ogni tipo ed accertati episodi di vera e propria tortura verso la stragrande maggioranza dei detenuti.

Questo massacro è stato denunciato dai familiari dei detenuti e da alcune associazioni indipendenti, le quali hanno consegnato alla Procura della Repubblica video, registrazioni di telefonate ed altri seri elementi di prova che hanno configurato una mole di materiale accusatorio verso la gratuita e vigliacca violenza da parte della Polizia Penitenziaria.

Evidentemente tale raccolta di prove e testimonianze è stata talmente precisa e particolareggiata che la Procura ha dovuto aprire una inchiesta con 57 indagati.

Tre giorni fa 44 di questi “avvisi di garanzia” sono stati notificati dai Carabinieri agli agenti della Polizia Penitenziaria impegnati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

A questo punto la Polizia Penitenziaria si è sentita “sotto processo” ed ha scatenato una reazione scomposta, provocatoria ed arrogante, come è nella consuetudine di questo “particolare” corpo di polizia, abituato a non rendere conto delle proprie azioni.

I singoli agenti della Penitenziaria che hanno ricevuto gli “avvisi di garanzia” hanno inscenato proteste eclatanti, dentro e fuori la sede carceraria (sono saliti sui tetti del carcere, hanno insultato i Carabinieri, si sono rifiutati di svolgere il loro servizio ordinario,hanno inveito contro i familiari dei detenuti).

Aassicurandosi immediatamente la solidarietà del leghista, Matteo Salvini, il quale si è precipitato da Roma a Santa Maria Capua Vetere per portare la sua “solidarietà militante” alla Polizia Penitenziaria.

Inoltre. il “sindacato” della categoria (Associazione Nazionale Funzionari e Dirigenti di Polizia Penitenziaria) ha, subito, convocato per il prossimo 2 luglio una manifestazione dei “baschi azzurri” a Roma, davanti a Montecitorio, lamentando che “lo Stato si è arreso ai delinquenti”.

Naturalmente l’avvio di una inchiesta (con l’accusa di tortura verso i detenuti) ha suscitato tra la popolazione ristretta in carcere un comprensibile sentimento di euforia, che si è espresso nella giornata di sabato 13/6 con urla di gioia nei vari padiglioni, alcuni insulti nei confronti di qualche membro della Polizia Penitenziaria e con un episodio di “accentuata allegria” (alcuni detenuti immigrati hanno dato fuoco ad una cella).

Inoltre dall’interno del carcere – specificatamente dal Padiglione Danubio, dove sono ammassati molti detenuti “resisi responsabili di rivolte in questo ed in altri carceri” – sono arrivate richieste come l’ abolizione dell’”Articolo 41 bis” ed una denuncia contro la struttura sanitaria del carcere, che non si prenderebbe cura della salute dei detenuti.

Rispetto a tale situazione la Polizia Penitenziaria ha scelto di drammatizzare ed ulteriormente esasperare il clima per agitare l’abituale clichè mediatico, atto a presentare i detenuti come l’incarnazione di tutte le malefatte dell’umanità, ed “affermare sul campo” la loro aspirazione, nei fatti, ad una sorta di “immunità giuridica e penale”.

Infatti alcuni agenti – con tanto di fotografi e di operatori televisivi al seguito – hanno lamentato che si sarebbero consumate aggressioni fisiche dei detenuti nei loro confronti, i quali sarebbero stati “incoraggiati nel loro disegno criminoso”… dall’iniziativa della Procura della Repubblica ed hanno invocato un “intervento pronto e risolutivo da parte dello Stato a difesa dei suoi servitori”.

Immediatamente da Roma è stato inviato un contingente di 100 uomini del GOM (Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria, uno squadrone anti-sommossa dalla pessima fama) con il dichiarato obiettivo di ristabilire “normali condizioni di serenità nell’ambiente lavorativo in cui operano gli agenti”.

Nello stesso tempo, si sono prontamente ammassati ai cancelli del carcere rappresentanti legali ed esponenti di tutte le variopinte corporazioni della categoria, sbraitando contro “i giudici che appoggiano i detenuti”.

Questa escalation di minacciose “insubordinazioni” da parte degli agenti della Polizia Penitenziaria, e il rinnovato protagonismo delle varie sigle dei “sindacati di categoria” (spesso di orientamento esplicitamente fascista) segnalano il diffuso “nervosismo” di questi apparati di polizia nei confronti di alcune inchieste giudiziarie (sicuramente questa della Procura di Santa Maria Capua Vetere ma anche una analoga, anche se minore nei numeri delle persone coinvolte, a Pavia).

Le quali stanno semplicemente portando alla luca una gigantesca catena di illegalità e il brutale uso della forza che, segnatamente nei primi giorni d’aprile, è stata messa in atto contro la popolazione carceraria italiana.

Andrebbe ricordato ai tanti che si “indignano per l’atteggiamento dei detenuti” che nell’ambito del contesto inedito e “surreale” del lockdown, in poche settimane sono morti oltre 20 detenuti “nel corso delle operazioni di contrasto alle proteste in atto”. Senza che nessuno tra agenti, funzionari di polizia, direttori di carcere e componenti della catena di comando sia stato ancora chiamato a risponderne in sede penale e/o giudiziaria.

Da segnalare che quasi tutti i morti sono “extracomunitari”, alcuni ancora in attesa di giudizio.

Del resto, se anche il “garante” dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, (notoriamente un sincero democratico, non certo un sobillatore di rivolte) si sente in dovere di esternare una sua preoccupazione circa la scomposta reazione degli agenti di Polizia Penitenziaria al momento della notifica degli “avvisi di garanzia”, c’è da chiedersi cosa ne è dello “stato di diritto” all’interno delle carceri.

Sarebbe ora che gli episodi che si stanno consumando nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fossero esaminati con la dovuta attenzione, stigmatizzando il loro carattere antidemocratico e l’intolleranza verso chi intende conoscere – e magari reclamare giustizia – per quanto è avvenuto nei mesi scorsi negli istituti di pena italiani.

Sarebbe ora che anche chi, positivamente, si appassiona per i moti antirazziali negli USA o negli altri paesi aprisse – finalmente – gli occhi sulle pratiche violente, inumane e ferocemente classiste che, quotidianamente, si producono nel complesso delle “istituzioni totali” del nostro paese. C’è molto razzismo fascista anche nelle polizie di casa nostra. E nelle carceri più che nelle strade.

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