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Sole e Baleno a Fontamara

Torino dormiva ancora, era sabato. Piazza Vittorio Veneto si allargava e le sue linee si definivano. La luce del mattino sembrava venire dal basso e non dal cielo. Un pensionato, lo chiameremo Camillo, nome caro a Torino, entra in un bar e ordina la colazione. Si siede a leggere La Stampa.
Era il
7 Marzo 1998 e il titolo principale se lo prendeva il battibecco tra D’Alema e Berlusconi sulla bicamerale. In fondo, a pagina trentasei, la notizia di tre terroristi arrestati in un blitz a Collegno e la parola squatter, che Camillo impara quel giorno. Edoardo Massari e Silvano Pellisserio, «squatters con la passione per le armi», continua l’articolo. La terza è Maria Soledad Rosas, «vicina al mondo dell’anarchia, frequentatrice degli squat torinesi.» Camillo vorrebbe vederla ma di lei non c’è la foto. «Incerto il ruolo che avrebbe avuto nella vicenda.»
Quella di Soledad è prima una storia argentina, poi, dal Giugno del 1997, il suo nome si restringe in “Sole” e la sua diventa una storia torinese. Prima dell’alba di un
11 Luglio di 21 anni fa la storia finisce. Alla stessa ora, nello stesso modo e nello stesso giorno della settimana scelto dal suo compagno, Edoardo Massari, per tutti Baleno, Soledad ha deciso di morire.
Quando Sole arriva a Torino va ad abitare nell’asilo occupato di Via Alessandria e scriverà: «il mondo è tanto grosso, ma c’è un posto per ognuno, e io penso di aver trovato il mio». Lì vive a stretto contatto con un gruppo di anarchici, tra cui Baleno. Non si era mai interessata di politica, riferisce la sorella, ma riconosce nella battaglia che stanno combattendo quei ragazzi la sua battaglia e in poco tempo si unisce a loro.

Il 5 Marzo i carabinieri dei Ros e gli uomini della Digos torinese fanno irruzione nell’ex obitorio del manicomio di Collegno, luogo occupato dal Giugno 1996, e mettono in manette Sole, Baleno e Silvano che si trovavano là. Arresto poi confermato il 7 Marzo dal giudice per le indagini preliminari, Fabrizia Pironti. L’accusa è molto grave: associazione sovversiva con finalità  di terrorismo (art. 270 bis c.p.)

Il 26 Marzo del 1998 è giovedì e il tribunale respinge ogni istanza di liberazione. Sabato all’apertura della cella Baleno è un corpo morto sospeso in aria da un lenzuolo. In una lettera straziante mandata ai compagni anarchici Sole scrive: «la galera è un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si può decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole […] Edo ha voluto finire subito con questo male infernale. Almeno lui si è permesso di avere un ultimo gesto di minima libertà, di decidere lui quando finirla con questa tortura.» La mattina del 2 Aprile Camillo potrà finalmente vedere la sua foto nel giornale: le due dita medie alzate tenute vicine dalle manette ai polsi il giorno del funerale.

Poi passano meno di quattro mesi, stesso giorno della settimana, stessa ora, stesso metodo. Soledad muore d’amore.
Il 21 novembre 2001 a Roma la corte di cassazione invalida l’accusa di attività terroristica con finalità eversive. Nel 2002 la Corte di Cassazione di Roma smonta le tesi dei pm torinesi Maurizio Laudi e Marcello Tatangelo. Non si trattava di un’associazione terroristica, ma di tre persone che al massimo si erano macchiate di reati minori. Silvano viene liberato.

Il film da poco uscito, Soledad (Augustina Macri, 2018), ha riacceso una luce su questo caso di cronaca. Non è stato proiettato a Torino a causa delle proteste avvenute durante le riprese con chi Sole e Baleno li ha conosciuti e vissuti e che rifiuta «quest’opera di spettacolarizzazione della storia del movimento di quegli anni e delle vite dei militanti che vi parteciparono». (Dal comunicato di Radio Blackout del 21 Ottobre 2017)
Soledad si costruisce sul libro Amor y anarquia: la vida urgente de Soledad Rosas (Planeta, 2003) di Caparrós che, in maniera anch’essa controversa e contestata, ha raccolto questa storia. Pone quindi al centro le vicende di Sole, le quali non possono certo non rendere co-protagonista anche il suo compagno. È su di lui che Camillo continuava a rimuginare in quei giorni. Da giovane leggeva molti romanzi e in uno di quelli Baleno c’era. Non si chiamava Edoardo Massari e non viveva a Torino. Era un cafone di Fontamara, Berardo Viola – si intende il termine cafone così come lo intendeva Ignazio Silone nel suo romanzo e non nell’uso corrente: identificativo di un ceto molto povero, il più povero.

Fontamara è del 1933, anche se in Italia uscì solo nel 1945 per la censura del regime, e narra le vicende di un piccolo villaggio tra le montagne marsicane. Fontamara è un paese con le sue caratteristiche peculiari, ma gli ultimi si somigliano in ogni parte del mondo, «fanno nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé», tanto che a posteriori Silone disse: «Il segreto del successo di Fontamara mi si è rivelato solo quando ho appreso che certe traduzioni incontravano difficoltà da parte della censura di vari Paesi. In Polonia e in Jugoslavia, per citare due esempi, le autorità non volevano credere che si trattasse di una traduzione dall’italiano e pretendevano che si trattasse di un trucco per raccontare in barba alla censura la storia di un villaggio polacco o jugoslavo». Tempi e luoghi allontanavano anche il fontamarese Berardo Viola dal piemontese Edoardo Massari. Tuttavia nella loro ribellione senza compromessi, nel loro ideale di giustizia sociale prima ancora che personale, nella loro resistenza ai più forti, nell’essere portavoce del loro popolo, disposti a mettere in gioco la vita con l’imprudenza e il coraggio dell’amore, in questo erano sovrapponibili.

«Coi padroni non si ragiona». Questa era la regola di Berardo, che di ingiustizie, anche lui, ne aveva viste tante. «Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. […] Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dar la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere persuaso che nell’altro mondo c’è l’inferno benché lui non l’abbia mai visto.»
Come Baleno, anche Berardo è morto in carcere, appeso per il collo nella sua cella. Ufficialmente suicidio, come Baleno. Morto per diventare un simbolo, per tentare di salvare la sua gente. «Il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri». Berardo Viola è vissuto e morto con una sola, salda, convinzione: non ci sono poteri buoni. Berardo Viola non conosceva nulla della politica, né tantomeno dell’anarchia, ma pur senza saperlo era un anarchico.

*neutopiablog.org

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