La conferma arriva da The Economic Effects of Violent Conflict: Evidence from Asset Market Reactions, uno studio condotto dai ricercatori della Bocconi Massimo Guidolin ed Eliana La Ferrara, pubblicato su Journal of Peace Researche.
Lo scopo dello studio, che utilizza quotazioni finanziarie settimanali, è «prima di tutto di individuare extra rendimenti in corrispondenza della settimana di avvio dei conflitti» e poi di «capire se gli effetti dei conflitti sulle principali variabili finanziarie avrebbero potuto essere sfruttati per produrre una superiore remunerazione degli investimenti acquistando o vendendo in modo sistematico le attività finanziarie a seconda della loro reazione media all’avvio di un conflitto».
Analizzando 101 conflitti occorsi in un periodo di tempo che va dal 1971 al 2004 (72 interni e 29 internazionali) i due studiosi hanno scoperto che «in media i mercati borsistici nazionali hanno maggiore probabilità di reagire in modo positivo che negativo all’avvio di un conflitto» e che «il mercato borsistico americano è quello che mostra le reazioni più forti e produce extra rendimenti positivi in corrispondenza del 12% dei conflitti analizzati».
La tesi, in verità, non è nuovissima. L’impatto economico delle guerre è stato infatti analizzato dagli economisti di ogni epoca e di ogni scuola di pensiero: c’è chi sostiene che esse stimolano la crescita economica e chi invece ritiene che questo legame sia quantomeno dubbio. Solitamente la reazione delle Borse allo scoppio del conflitto è generalmente positiva, in quanto mette fine alla fase d’incertezza che per i mercati rimane sempre il nemico più temuto. Successivamente la Borsa registra rialzi o ribassi in funzione della sua durata e/o della sua evoluzione più o meno positiva. Ci sono naturalmente le eccezioni: in occasione della Seconda guerra mondiale la risposta del Dow Jones fu dapprima negativa e poi – dal 1942 in avanti – molto positiva. Nel caso invece della guerra di Corea, del Vietnam e della prima Guerra del Golfo, la reazione della Borsa allo scoppio della guerra fu positiva (addirittura euforica in quella del 1991).
Non tutti i conflitti sono uguali
L’impatto sui mercati finanziari – scrivono i due autori – è più forte per i conflitti a maggiore intensità, sia in termini di durata sia di numero di vittime. I conflitti, poi, non sono tutti uguali e i mercati borsistici di paesi che dipendono dalle forniture straniere di materie prime o fonti di energia possono essere colpiti con durezza da conflitti localizzati nei paesi esportatori di questi beni, specialmente quando i conflitti non sono anticipati e i mercati non hanno ancora scontato l’incertezza che ne precede l’esplosione. «Dal momento che la nostra ricerca fa riferimento alla data ufficiale di inizio di un conflitto», afferma Guidolin, «il caso libico sembra però vicino allo schema medio. La Borsa italiana, la scorsa settimana, è crollata alla notizia dei violenti scontri, dopo che simili situazioni si erano risolte in modo più pacifico in altri paesi dell’area ma prima che una guerra civile fosse ufficialmente scoppiata. Questa settimana, al formalizzarsi di un’opposizione e della spaccatura del paese in due, le Borse si sono riprese». Ma attenzione avverte Guidolin: «si tratta di effetti medi, sui quali non si può fare affidamento nelle decisioni d’investimento legate a un singolo episodio».
Reazioni più varie nei mercati delle materie prime
Comportamenti più diversifiicati si possono invece osservare nei mercati delle materie prime. «La reazione di un indice che comprende tutte le commodity – scrivono Guidolin e La Ferrara – è positiva nel 6,9% dei casi e negativa nel 4,9% (dal momento che gli autori usano dei test al 5%, i coefficienti al di sotto del 5% potrebbero essere attribuiti al caso), ma ci sono molte eccezioni, compresa la forte reazione dei future sul petrolio all’avvio di conflitti in Medio Oriente, che è negativa nel 45,5% dei casi e positiva nel 27,3%». Il risultato, osservano i due studiosi, «conferma una tendenza generalizzata del mercato ad accumulare posizioni lunghe nella commodity a fronte dell’incertezza sull’offerta futura di petrolio. Quando i conflitti in Medio Oriente effettivamente scoppiano, scompare la domanda in eccesso motivata dalle pressioni speculative e i prezzi dei future sul petrolio scendono».
I tassi di cambio del dollaro seguono uno schema simile perché l’accumulo di riserve liquide di dollari è una risposta diffusa alla crescente ambiguità che precede l’esplosione di un conflitto.
Guidolin e La Ferrara effettuano anche una simulazione di portafoglio per confrontare i rendimenti di un investitore che sfrutti sistematicamente le reazioni dei mercati comprando o vendendo attività finanziarie nelle settimane di avvio di un conflitto secondo la loro reazione media ai conflitti con i rendimenti di un investitore meno sofisticato che acquisti in modo passivo il portafoglio mondiale nelle stesse settimane. Alla fine del periodo 1971-2004, l’effetto ricchezza è debole per chi avesse investito in azioni Usa (sarebbe solo il 4% più ricco della controparte più ingenua), ma forte nel caso di azioni britanniche (ricchezza superiore del 27%). L’effetto ricchezza più significativo deriva dall’investimento sistematico in future sul petrolio, con una ricchezza che supera dell’80% quella accumulata con una strategia passiva.
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