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Crisi: il prezzo del petrolio spegne le speranze di ripresa

Il fatto che la Libia produca in questo momento un milione di barili al giorno in meno è un problema (soprattutto per la fuga di lavoratori e tecnici stranieri che non per i combattimenti diretti), ma non del tutto irrisolvibile. L’Arabia Saudita ha una sovracapacità di riserva non utilizzata che copre quasi per interno questa assenza. Ma, chiaramente, non è cosa che si ossa fare con uno schiocco di dita; occorre rimettere in moto impianti estrattivi fermati per qualche ragione, aumentare il volume di quelli in funzione, ecc.Tanto più che domani anche Riad sarà toccata da una “giornata della collera”, con la popolazione in piazza a protestare a dispetto del potere della famiglia reale (il principale pilastro della politica Usa in Medio Oriente, sul fronte arabo) e sotto la minaccia di una “fatwa” emanata dagli Ulema.

Nel frattempo si è creata una paura di offerta carente, e il prezzo ha reso a salire. Anche perché altri paesi produttori di petrolio sono attraversati al momento da un “nervosismo” sociale più o meno accentuato, ma che comunque fa presagire difficoltà e problemi anche per l’estrazione.

Così i due marker più usati il Wti americano e il Brent del Mare del Nord – sono da qualche giorno stabilmente su prezzi decisamente preoccupanti: 105 dollari al barile il primo, 116 il secondo. Va ricordato che il prezzo massimo – 147 dollari – fu toccato nel luglio 2008, due mesi prima del crollo di Lehmann Brothers e l’avvio della fase più acuta della crisi finanziaria.

La Borsa di Tokyo ha chiuso gli scambi perdendo l’1,46%, l’Hang Seng cinese lo 0,82. Anche le borse europee hanno perso in mattinata circa l’1% in media.

Si “soffricchia”, insomma. Il direttore generale di Viale dell’Astronomia, Giampaolo Galli, ha spiegato stamattina che «lo shock rappresentato dal rincaro delle materie prime ed in particolare del petrolio rischia di rallentare sensibilmente la ripresa nei paesi avanzati». Un prezzo a 115 dollari al barile «può comportare un minor livello del Pil italiano di circa lo 0,7% in due anni a parità di altre condizioni». Se si tien conto che questa percentuale è di poco superiore alle attese di crescita per l’anno in corso, si capisce subito che ci si deve aspettare un altro anno di stagnazione, nel migliore dei casi.

Come negli anni ’70, però, alla stagnazione si accompagna l’aumento dell’inflazione, trainata come allora dalle merci importate (materie prime, energetiche e non), in una spirale distruttiva di ricchezza e competenze professionali. L’unico “movimento” che ancora non si è manifestato è quello della crescita salariale: se le cose resteranno così, allora l’intero prezzo della crisi verrà pagato da chi lavora e dai pensionati (i più “tosati” dall’inflazione, mentre le imprese possono provare a “scaricare” le conseguenze sui prezzi finali).

In realtà, ai piani alti di Confindustria, o almeno all’interno del Centro Studi, sanno benissimo – lo avevano già comunicato le analisi congiunturali di alcune categorie, come Federmeccanica – che segnali di rallentamento si erano manifestati già prima della crisi nordafricana. In pratica, il “circolo virtuoso” della crescita non si era affatto rimesso in moto; o perlomeno non ai livelli del resto d’Europa, tantomeno rispetto i livelli pre-crisi. Chiaro che il caro-materie prime non fa che accelerare le tendenze recessive. Ma è inutile pretendere dalle imprese italiane un’autocritica rispetto al modello di sviluppo adottato (niente innovazione, basso costo del lavoro e prodotti finali di fascia medio-bassa, i più aggrediti dalla concorrenza degli “emergenti”).

Altri rischi arrivano «dai rialzi dei tassi di interesse annunciati dalle autorità monetarie e dal conseguente apprezzamento del cambio dell’euro». Due movimenti tipicamente “deflazionistici” e che sono in grado di congelare lo sviluppo di paesi ben più dinamici del nostro. Anche il piano presentato dal governo Berlusconi all’Europa, nel contesto degli obiettivi 2020 e del percorso di uscita dalla crisi, «nella sua versione provvisoria» appare «scarsamente ambizioso, specie alla luce del ritardo accumulato nell’ultimo decennio dall’Italia».

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