Nelle Considerazioni finali del Governatore, per tradizione, tutti riescono a trovare ciò che dà loro ragione. Non è il nostro caso.
L’unico riconoscimento che ci sentiamo di fare è per il livello di discussione cui il governatore cerca di richiamare tutti i protagonisti della scena nazionale.
Detto questo, però, la visione di Draghi è disperatamente “classica”. Ovvero neoliberista appena temperata dalla necessità di mantenere una “rete di protezione sociale” senza la quale andrebbe a rischio la stessa convivenza sociale e quindi gli obiettivi si crescita economica.
Ma tanto basta per differenziarsi nettamente dal governo in carica. E non a caso la rivendicazione di “indipendenza” della Banca d’Italia torna più volte nel suo discorso e si proietta, a maggior ragione, sul suo futuro ruolo di governatore della Banca Centrale Europea.
Per dirla in maniera semplice, la sua maniera di effettuare i tagli nella spesa pubblica sarebbe assai selettiva (“occorre invece un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce… al fine di conseguire migioramenti capillari nell’organizzazione e nel funzionamento delle strutture”), mentre Giulio Tremonti si è caratterizzato per i “tagli lineari”, senza alcun rispetto né indagine che distinguesse tra la spesa “buona” e quella pessima da annichilire. Non a caso ha citato diffusamente la pessima gestione della spesa per infrastrutture pubbliche, la più cara e più lenta d’Europa, indicando qui – insieme ovviamente al recupero dell’evasione fiscale – uno dei terreni su cui recuperare risorse da impegnare là dove più servono per stimolare la crescita.
Ma anche rispetto alle politiche del lavoro, il governatore marca una differenza non da poco rispetto a Maurizio Sacconi. Il quale ha ritenuto che per favorire la crescita fosse sufficiente consegnare alle imprese la clava per indurre al silenzio i lavoratori, togliendo loro tutele, diritti, salario. Draghi insiste puntigliosamente invece sui fattori che frenano la produttività, riconoscendo che “le retribuzioni reali dei lavoratoti dipendenti sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9% in Francia”. E, quindi, che non è questo il terreno su cui si recupera competitività. Al contrario, punta il dito contro “la struttura produttiva italiana, più frammentata e statica di altre, e politiche pubbliche che non incoraggiano, spesso ostacolano, l’evoluzione di quella struttura”. Piccolo non è affatto bello, insomma, soecie se si guarda ai du fattori che quasi da soli ignigantiscono la produttività: “nuove tecnologie e globalizzazione”.
Non da ultimo, quasi a sorpresa, Draghi stigmatizza “l’assenza di regole certe nella rappresentanza sindacale” (che è invece una medaglia rivendicata da Sacconi e il governo). Anche se, ovviamente, nello schema liberale che concede “la possibilità per i lavoratori di assumere impegni nei confronti dell’azienda”. Insomma: serve un nuovo “patto sociale” tra imprese e lavoro, ma perché sia un patto “esigibile” – come si dice ora – occorrono regole che certifichino la rappresentatività dei firmatari di accordi e contratti.
E sembra di ascoltare Pietro “il terribile” Ichino quando fotografa il dualismo esistente sul mercato del lavoro, tra “tutelati” e “precari” per concludere che occorrerebbe “riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso” (apprendistato, a termine, ecc); come se “flessibilizzando” anche le “modalità d’uscita” (i licenziamenti, dunque), si potesse ripristinare una maggiore equità al ribasso e “migliorare le aspettative di vita dei giovani”.
E la necessità di regole è l’architrave concettuale che orienta, comprensibilmente, un interprete fedele del ruolo istituzionale. Da civil servant, dice a un certo punto. Qualcosa di estraneo, incomprensibile, nemico, per chi ha fin qui interpretato il ruolo del governo come impossessamento irresponsabile di strutture di potere, “senza fare prigionieri”.
Regole per la finanza internazionale (fino ai “derivati over the counter”), per le banche, per la giustizia civile. Per le “istituzioni finanziarie sistemiche” che non vanno mai più considerate “troppo grandi per fallire” e che, anzi, devono fallire se sbagliano strategie e obiettivi; ma in “modo ordinato”. Perché anche per lui è “inaccettabile che i guadagni spettino ai privati, le perdite alla collettività”.
Il suo è dunque un programma di governo “per la crescita”, che chiede un’altra cultura e un’altra classe politica. O, più probabilmente, una stagione di “governo tecnico”, politicamente irresponsabile e senza preoccupazioni elettorali, che possa realizzare l’auspicato “risanamento”. Un “super Ciampi”, obiettivamente richiamato dal riferimento all’”esperienza italiana all’inizio degli anni ’90” e dall’omaggio a Tommaso Padoa Schioppa.
Ascolta Francesco Piccioni (“il manifesto”, intervistato da Radio Città Aperta;
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