La Corte di Karlsruhe ha però stabilito che il Parlamento debba avere voce in capitolo in tutte le decisioni che comportano un carico per le casse dello stato tedesco. In particolare – prevede la sentenza – il governo dovrà ricevere il via libera della Commissione Bilancio prima di partecipare a un piano di aiuti.
Il più classico dei compormessi, dunque, che però toglie da tavolo una grande incertezza. Una. In questa settimana, infatti, si attende che ne vengano sciolte almeno altre due. La prima è: la Bce continuerà o no a comprare i titoli di stato di Italia e Spagna? L’approvazione della manovra, a Francoforte, è considerata una conditio sine qua non.
Il ricorso alla Corte Costituzionale di Karlsruhe era stato presentato da un gruppo di professori universitari e da un deputato della Cdu, il partito di Angela Merkel, contro il contributo della Germania, approvato dal parlamento tedesco, al piano di salvataggio della Grecia. Se la corte avesse dato ragione ai cinque professori, il governo di Berlino avrebbe dovuto ritirare il suo assenso ai piani e agli strumenti decisi in queste ultime settimane tra Bruxelles e Francoforte. La posizione dei cinque professori che hanno presentato ricorso, non è affatto isolata, anche nel mondo politico. Nella destra tedesca si sta facendo strada un atteggiamento ostile verso ogni impegno a favore dei paesi in difficoltà. Non si tratta soltanto di soltanto di rifiutare gli eurobond o criticare gli acquisti di titoli da parte della Bce, ma si arriva apertamente a teorizzare l’esclusione dei Piigs dall’Eurozona. E non si parla solo della Grecia: ieri i toni si sono fatti molto pesanti sull’Italia e sulle gravi incertezze suscitate dagli indecorosi balletti sulla manovra. Ormai “i cittadini e gli investitori non credono più che i piani del governo di Roma abbiano qualche senso” scrive il settimanale tedesco “Die Zeit”.
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I problemi della Germania e il peso che ha nella definizione dell’evoluzione europea pongono interrogativi molto seri. Che preoccupano tutti gli editorialisti padronali non incaricati del banale compito di benedire lo smantellamento dello stato sociale. Vediamoli.
da Il SOle 24 Ore
Dall’entrata nell’euro al suo salvataggio: per la Germania dieci anni in crisi d’identità
di Beda Romano
A prima vista non vi sono concetti più dissimili, più incompatibili. Com’è possibile associare la ricca e potente Germania al sentimento, talvolta vigliacco, della paura? Eppure, mentre mi accingo a lasciare questo Paese dopo dieci anni di corrispondenza e tento di trovare un filo logico agli avvenimenti dell’ultimo decennio proprio la paura per un futuro ignoto e incerto potrebbe essere la chiave di lettura più seducente per capire la vera natura dei tedeschi. È il destino di un popolo che più di altri in Europa affronta l’esistenza interrogandosi perennemente sulle conseguenze delle proprie azioni, come il Faust di Goethe deve difendersi dalle tentazioni di Mefistofele.
«L’impero dei mari è agli inglesi, quello della terra ai francesi, quello dell’aria ai tedeschi», diceva Johann Paul Friedrich Richter. Aria, in questo caso, è sinonimo di pensiero e di dialettica. In quanti altri popoli è così diffusa la capacità di vivisezionare i problemi più ardui, di analizzare astrattamente i pro e i contro di una qualsiasi decisione? In quanti altri Paesi, il dibattito pubblico è così approfondito, così poco fazioso, così lungimirante? È l’immaginazione più che lo spirito che caratterizza l’anima tedesca. E quando all’immaginazione viene lasciato libero corso l’emotività prende il sopravvento, incubi e angosce diventano il naturale corollario.
In dieci anni la Germania ha compiuto una transizione epocale dalla grande stagnazione alla grande ripresa, superando di slancio anche la grande recessione. Entrato nell’euro con un marco sopravvalutato e oberato dai costi dell’unificazione, il Paese si è imposto una straordinaria cura dimagrante. Le liberalizzazioni volute dal cancelliere Gerhard Schröder sono le conseguenze di una Germania orgogliosa e intelligente, ma anche angosciata da un avvenire che nei primi anni del decennio scorso appariva drammaticamente in forse.
Oggi il Paese è tornato competitivo; ma la domanda interna sembra quasi congelata, il riflesso di una società troppo preoccupata per consumare. Molte, forse tutte le scelte tedesche, piccole e grandi, sono radicate nel desiderio innato di evitare imprevisti e di dare certezze al futuro. La stessa grande coalizione che ha guidato il Paese tra il 2005 e il 2009, il secondo esperimento di questo tipo nel secondo dopoguerra, è il risultato tanto di un voto dall’esito inconcludente quanto del desiderio di darsi comunque la certezza di un governo. Lo stesso vale per la guerra in Afghanistan, voluta non solo perché così era stato deciso tra gli alleati occidentali, ma perché a nessuno in Germania era sfuggito che gli attentati del 2001 avevano una pericolosa e imbarazzante radice amburghese, tale da mettere in dubbio la Bürgersicherheit, la sicurezza dei cittadini tedeschi.
La stessa cultura della stabilità di cui tanto si parla in Europa è tanto una dottrina economica quanto un pilastro sociale. In un Paese che offre centinaia di polizze assicurative diverse – per premunirsi contro un viaggio aereo cancellato all’ultimo minuto o per assicurarsi contro le spese di un’eventuale causa giudiziaria – l’obiettivo è sempre di avere certezze. Il tedesco è convinto che il futuro non sia necessariamente in grembo a Giove; è piuttosto uno spazio temporale che può essere modellato a fronte di un presente sfuggente e inafferrabile. “L’incredibile spensieratezza” degli italiani, notata da Goethe nel suo Viaggio in Italia, non appartiene ai tedeschi. Nello stesso modo in cui il contratto assicurativo diventa uno strumento per arginare l’imprevisto e preparare l’avvenire, la cultura della stabilità serve a dare concretezza alle proprie ambizioni e ai propri desideri.
Diceva Goethe: «Das erste steht uns frei, beim zweiten sind wir Knechte», solo il primo passo è libero; del secondo si è schiavi. Le regole diventano a questo punto una intelaiatura che dà certezze, ma di cui al tempo stesso si diventa ostaggio. Das geht nicht, Così non va, amano dire i tedeschi con un certo malcelato compiacimento a chi tenta di eludere le regole, anche quelle più banali. Lo stesso ha detto l’establishment tedesco in questi anni di crisi economica: no al sostegno finanziario alle banche in difficoltà, no agli aiuti ai paesi in crisi, no agli acquisti di obbligazioni da parte della Banca centrale europea. Le cose sono andate diversamente.
Quando arrivai in Germania, nel 2000, il Paese stava vivendo nervosamente la vicina introduzione dell’euro. Sullo Zeil, la lunga via pedonale che attraversa il centro di Francoforte, imbonitori della prima ora sventolavano manifesti improbabili a difesa del vecchio deutsche Mark. Un anziano reduce della Seconda guerra mondiale annunciava, come un moderno Nostradamus, destini malefici.
Oggi a dieci anni di distanza, i giornali popolari soffiano sul fuoco delle preoccupazioni della kleine Leute, della piccola gente. Accusano la moneta unica di tutti i mali e guardano alla crisi greca come al detonatore di un nuovo declino tedesco.
Nulla sembra cambiato. La paura continua a farla da padrone. In realtà, non è vero che i sentimenti tedeschi nei confronti della moneta unica siano rimasti immutati, né soprattutto che siano univoci. I giornali amano i luoghi comuni. Cavalcare l’euroscetticismo della Germania profonda è facile e comodo. Eppure, nel 2002, la Germania fu l’unico Paese europeo a introdurre l’euro con un big bang. Già in febbraio il marco tedesco era off limits, mentre ancora oggi gli estratti-conto delle banche francesi a Nantes o a Bordeaux indicano gli ammontari in franchi. In effetti per molti tedeschi la moneta unica è stata un modo per superare la loro precedente unificazione monetaria, quella controversa del 1990.
Lo stesso può dirsi per la drammatica crisi debitoria che sta scuotendo le fondamenta dell’unione monetaria. Nello stesso modo in cui il dramma di queste settimane dà ragione al vecchio reduce dello Zeil, i dubbi amletici dell’establishment tedesco sul se e sul come aiutare la Grecia e gli altri paesi della zona euro confermano le preoccupazioni di chi teme una Germania euroscettica, troppo grande per accettare l’equilibrio delle potenze in Europa, troppo piccola per avere ambizioni realmente mondiali. Ma come non ammettere che dopo tanti tira-e-molla il Paese ha accettato di aiutare i suoi partner europei.
L’innata paura del futuro spiega quindi successi e debolezze dei tedeschi. Mentre lascio la Germania, l’Europa si interroga su come questo Paese gestirà i prossimi delicati passaggi dell’Unione: si arrenderà come ha fatto finora a un lento processo di integrazione, o si ripiegherà su se stessa nel tentativo disperato di ritrovare la certezza delle regole e la sicurezza dei principi, mentre il futuro – se possibile – appare più incerto che mai? In De l’Allemagne, Madame de Staël spiega: «In Germania bisognerebbe dare un centro e dei confini a questa eminente facoltà di pensare che si eleva e si perde nella vaghezza, penetra e sparisce nella profondità, si neutralizza a forza di imparzialità, si confonde a forza di analisi». Se l’avvertimento ha ancora un senso, il futuro del Paese, e dell’Europa, è tanto in mano dei tedeschi quanto dei loro vicini.
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Se la virtù nasconde l’egoismo nazionale
di Gianni Toniolo
Alla fine del 1930, il presidente Hoover aveva capito che la posizione debitoria della Germania stava per diventare insostenibile per la perdita di fiducia dei mercati nella capacità dei creditori (privati) tedeschi di ripagare l’enorme debito estero. Al presidente era perfettamente chiaro che, per salvare non solo la Germania ma l’intera Europa e gli stessi Stati Uniti da una crisi senza precedenti, erano necessari prestiti pubblici (in sostituzione del credito privato) e la sospensione delle riparazioni di guerra imposte ai tedeschi dal Trattato di Versailles.
Ai collaboratori che gli chiedevano perché non prendesse subito l’iniziativa, Hoover rispondeva che era necessario che la situazione si deteriorasse ulteriormente perché si creassero le “condizioni politiche” per un intervento a favore della Germania. Sappiamo come andò. Nell’estate 1931, alla caduta dei redditi e dell’occupazione si aggiunse una crisi bancaria senza precedenti catalizzata dal ritiro dei capitali stranieri dalle banche tedesche. Solo allora l’opinione pubblica e le cancellerie compresero che la crisi avrebbe travolto non solo la Germania, ma l’intera economia mondiale e si crearono le “condizioni politiche” che resero possibile l’iniziativa di Hoover per una moratoria delle rate del debito di guerra tedesco. Questa giusta iniziativa arrivò fuori tempo massimo. Non bastò a evitare che il 1931 fosse il peggiore anno di pace di tutto il ventesimo secolo.
Nel 1930-31, le condizioni politiche che rendevano impossibile una razionale soluzione economica derivavano in buona misura dal rifiuto della “virtuosa” Francia, forte delle proprie riserve auree, di aiutare la Germania, accusata di avere anteposto una crescita dei consumi che non poteva permettersi al pagamento delle “giuste” riparazioni; ritenute “giuste” anche perché, nel 1871, la Francia aveva pagato senza tante storie in oro le riparazioni chieste dal nascente Reich vincitore. L’opinione pubblica francese era quasi unanime: i tedeschi dovevano pagare fino all’ultimo marco-oro la ricostruzione e le pensioni alle vedove e agli invalidi di guerra. L’opinione pubblica tedesca, per parte sua, riteneva che la Germania fosse stata vittima a Versailles di un’enorme ingiustizia (Keynes più freddamente considerava il trattato di pace un’imbecillità). La posizione tedesca era resa più fragile dalla scarsa credibilità dei suoi governi e dall’avanzare del nazionalsocialismo. I punti di vista dei due elettorati non erano conciliabili e i governi di Parigi e Berlino dovevano tenerne conto, qualunque fossero le convinzioni private dei loro membri.
Troppo tardi la Francia e le altre potenze creditrici si accorsero che la crisi dell’estate 1931 avrebbe sommerso, con la Germania, tutti gli altri.
La posizione della “virtuosa” Germania di oggi assomiglia a quella della Francia del 1930-31. La cancelliera Merkel è costretta a percorrere una strada assai stretta tra la consapevolezza che sono in gioco le sorti stesse del progetto europeo (dal quale la Germania ha tratto e trae grandi benefici) e un elettorato insofferente verso Paesi mediterranei percepiti come abituati a vivere al di sopra dei propri mezzi e incapaci di mettere ordine nella propria casa. L’Europa mediterranea, soprattutto l’Italia, per parte sua, si sente abbandonata dai ricchi vicini del Nord, obbligata a tirare troppo la cinghia, sottoposta a diktat umilianti. Sentimenti che assomigliano a quelli della Germania del 1930-31.
A Berlino e a Roma i governi si sono resi conto dell’estrema pericolosità della crisi; anche la conversione di quello di Roma è recente e forse incompleta, ma questa consapevolezza manca ancora alle opinioni pubbliche dei due Paesi. Ciò rende la Merkel cauta nel procedere lungo la strada non solo dell’eurobond ma anche di un minimo necessario di integrazione fiscale e il governo italiano attento a non scontentare i vari segmenti del proprio elettorato. Bisognerà, come nel 1931, che la crisi divenga più acuta perché si creino, a Berlino come a Roma, le “condizioni politiche” per coordinare le azioni necessarie? A quel punto sarà, come allora, troppo tardi? La storia non si ripete mai in modo meccanico, ma le analogie ci sono e suscitano domande angoscianti.
Come se ne esce? Il modo migliore sarebbe, come sarebbe stato negli anni Trenta, un’azione coordinata nella quale Germania ed Europa mediterranea facessero entrambe la propria parte. Perché ciò fosse possibile dovrebbe esistere a Berlino e Roma una leadership forte capace di parlare in modo convincente al proprio elettorato spiegando la gravità della crisi e la necessità di misure, ancorché impopolari, ancora oggi capaci di salvare l’Europa. In mancanza di questo, l’Italia non può che fare da sola, come la Germania del 1931, per il semplice fatto che, nell’immediato, è quella che ha maggiormente da perdere. Deve farlo, come la Germania di allora, per se stessa non perché richiesta da altri.
Non solo perché, piacciano o meno importa poco, i cosiddetti mercati devono rifinanziare il nostro enorme debito, ma soprattutto per lasciarsi alle spalle l’illusione durata troppo a lungo che la crescita possa essere nel tempo lungo comprata con spesa in disavanzo. In questo l’Europa non c’entra. Ma se l’Italia facesse uno sforzo credibile di mettere stabilmente in equilibrio la propria finanza pubblica salverebbe anche l’Europa. Dopo avere contribuito a crearla nel 1957, sarebbe questo un enorme merito storico. E darebbe torto al Financial Times (3 settembre) quando scrive che, potendo scegliere, «pochi avrebbero scelto l’Italia» come partner per salvare l’Eurozona.
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Le ragioni (da ascoltare) dei mercati
di Martin Wolf
Che dobbiamo fare? Dobbiamo ascoltare i mercati. E i mercati ci dicono: per favore, prendete soldi in prestito e spendeteli. Eppure, proprio quelli che professano la maggior fede nelle virtù magiche del mercato sono quelli che ignorano con più ostinazione questo accorato appello. Il cielo delle finanze pubbliche ci sta crollando sulla testa, insistono. La Hsbc prevede che le economie dei Paesi ad alto reddito quest’anno cresceranno solo dell’1,3%, e dell’1,6% nel 2012.
I mercati obbligazionari sono altrettanto pessimisti: i buoni del Tesoro decennali Usa rendono meno del 2%, il tasso più basso in 60 anni; i Bund tedeschi l’1,85%; perfino il Regno Unito riesce a farsi prestare soldi al 2,5%. I rendimenti di questi tre Paesi stanno scendendo velocemente ai livelli giapponesi. Incredibilmente, i rendimenti dei titoli indicizzati negli Usa sono vicini allo zero, in Germania sono al 0,12% e nel Regno Unito allo 0,27 per cento.
I mercati sono impazziti? Sì, insistono i sapientoni: il rischio maggiore non è la recessione, come temono i mercati, ma il default. Ma se i mercati si sbagliano così tanto sui prezzi di questi titoli di Stato, che ragione c’è di prenderli sul serio in qualsiasi altra circostanza?
I grossi disavanzi di bilancio attuali, specialmente in quei Paesi dove ci sono state crisi finanziarie di vastissima entità, non sono il risultato degli stimoli keynesiani; perfino negli Stati Uniti gli stimoli, mal congegnati e di dimensioni inadeguate, hanno rappresentato soltanto il 6% del prodotto interno lordo, nella peggiore delle ipotesi un quinto dei disavanzi effettivi nell’arco di tre anni. I disavanzi sono in gran parte un prodotto della crisi: i Governi hanno lasciato che crescessero mentre il settore privato si precipitava a tagliare le spese.
Impedire questo avrebbe significato la catastrofe. Come sostiene Richard Koo della Nomura Research, i disavanzi di bilancio hanno aiutato il deleveraging del settore privato. È esattamente quello che sta succedendo nel Regno Unito e in America. In America, le famiglie si sono trovate in surplus finanziario dopo che i prezzi delle case hanno cominciato a calare, mentre le imprese si sono trovate in surplus con la crisi. Gli stranieri continuano a rifornire gli Stati Uniti di capitali. Tutto questo ha lasciato al Governo di Washington il ruolo di debitore di ultima istanza. La situazione Oltremanica non è diversa, se non per il fatto che le imprese qui sono rimaste costantemente in surplus.
Fintanto che il settore privato e gli stranieri restano così marcatamente in surplus (nonostante i tassi di interesse bassissimi), per alcuni Governi farsi prestare soldi non sarà un problema. L’unica domanda è: quali Governi? Gli investitori sembrano scegliere un unico rifugio sicuro per ogni area valutaria: il Governo Usa americano per l’area del dollaro, quello britannico per l’area della sterlina e quello tedesco per l’Eurozona. Nel frattempo, fra un’area valutaria e l’altra, l’aggiustamento avviene attraverso il tasso di cambio più che attraverso i tassi di interesse sui titoli di Stato dei Paesi-rifugio sicuro.
Più il settore privato è in surplus (e quindi più è alto, per compensazione, il deficit di bilancio), più in fretta riuscirà a rientrare dei suoi debiti. I disavanzi di bilancio dunque sono utili, in una situazione di contrazione patrimoniale, non perché rimettano prontamente in salute l’economia, ma perché favoriscono un risanamento faticosamente lento.
Un’obiezione – avanzata dal professore di Harvard Kenneth Rogoff – è che la gente risparmierà ancora di più per paura che in futuro si alzino le tasse. Non sono convinto: in Giappone il risparmio delle famiglie è diminuito. Ma c’è una buona soluzione al problema posto da Rogoff: usare i fondi a buon mercato ottenuti in prestito dallo Stato per accrescere il benessere futuro e migliorare di conseguenza la situazione dei conti pubblici sul lungo periodo. È inconcepibile che un Governo affidabile non riesca a ottenere rendimenti di gran lunga superiori ai costi trascurabili a cui prende in prestito investendo in beni fisici e umani, per conto proprio o insieme al settore privato. Allo stesso modo è inconcepibile che l’indebitamento dello Stato mirato ad accelerare la riduzione della massa del debito privato, a ricapitalizzare le banche e a sventare il rischio di un tracollo immediato della spesa non produca rendimenti di gran lunga superiori ai costi.
Un’altra obiezione valida, fondata sulle eccellenti ricerche di Rogoff e di Carmen Reinhart del Peterson Institute for International Economics di Washington, è che la crescita rallenta bruscamente quando il debito pubblico supera il 90% del Pil. Ma questa è una correlazione statistica, non una legge divina. Nel 1815, il debito pubblico del Regno Unito era pari al 260% del Pil. Che cosa è successo dopo? La rivoluzione industriale.
Quello che conta è come vengono usati i soldi presi in prestito. E in questo caso dobbiamo anche considerare le alternative. Se si vuole ridurre drasticamente il disavanzo, bisogna ridurre anche le eccedenze nel resto dell’economia. Il problema è come possa conciliarsi tutto questo con una rapida riduzione della leva finanziaria e un’espansione della spesa: a mio parere è impossibile. Un esito più probabile, nelle circostanze correnti, è un default di massa, una contrazione dei profitti, banche in sofferenza e una nuova recessione: questo è quello che succederebbe se la depressione che oggi viene contenuta cessasse di esserlo.
Il pericolo è particolarmente imminente nell’Eurozona. Ci sarebbe molto da dire in risposta all’intervento di Wolfgang Schäuble ieri sul Financial Times, ma due punti emergono su tutti. Il primo è che è impossibile che sia i Governi che i settori privati dei Paesi in deficit riescano a rifondere il loro debito (invece di dichiarare il default) senza passare in una situazione di surplus nel saldo con l’estero. Che cosa sta facendo la Germania per rendere possibile questo aggiustamento? Praticamente nulla. Il secondo è che all’interno di un’unione monetaria un grande Paese con un surplus strutturale delle partite correnti è praticamente obbligato a finanziare i disavanzi delle controparti: se il suo settore privato si rifiuta di farlo, dovrà farlo il suo settore pubblico, altrimenti i suoi partner andranno in default e le loro economie crolleranno, con conseguenti effetti negativi sulle esportazioni del Paese in questione. Al momento la Banca centrale europea sta fornendo buona parte dei finanziamenti necessari: Schäuble vuole davvero che smetta di farlo?
Contrariamente all’opinione diffusa, gli spazi per politiche di spesa pubblica non sono esauriti. È quello che ha detto Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, a Jackson Hole, il mese scorso. La necessità è quella di combinare un indebitamento a tassi bassi ora, con misure credibili di riduzione della spesa sul lungo periodo. Ed è altrettanto necessario che i Paesi in surplus che hanno la capacità di potenziare la domanda lo facciamo.
Diventa sempre più evidente che i Paesi industrializzati stanno facendo l’errore del Giappone, e cioè tagliare prematuramente le spese durante una depressione, ma su scala ben più pericolosa e globale. L’opinione diffusa è che risanando i conti pubblici si rilanceranno gli investimenti e la crescita. Una visione alternativa è che soffrire è bello. La prima è un’assurdità, la seconda un’immoralità.
Non basta riconsiderare la politica di bilancio, anche la politica monetaria ha un ruolo importante da giocare. E anche le riforme sul versante dell’offerta, in particolare con modifiche al sistema di tassazione che favoriscano gli investimenti. E anche, non meno importante, il riequilibrio globale. Ma ora, in un contesto di eccesso di risparmio, l’ultima cosa di cui c’è bisogno è che i Governi affidabili riducano il loro indebitamento. I mercati lo stanno dicendo a gran voce. E allora stiamoli a sentire.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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