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Eurolandia al bivio cruciale


di Martin Wolf


I membri dell’Eurozona sono in preda a un grave attacco di rimorso del compratore. Molti vorrebbero smontare il giocattolo acquistato quasi vent’anni fa e assemblato tra la fine degli anni 90 e il decennio appena trascorso. È un giocattolo che non si può smontare, si può solo rompere, e con esso andrebbe in pezzi l’impianto della cooperazione europea.

Il mondo guarda con orrore all’eventualità che l’Eurozona possa innescare un’ondata di crisi di debito pubblico e del settore bancario. Se così fosse, non sarebbe la prima volta che la follia europea porta la rovina nel mondo.
L’idealismo che fece da motore all’euro è svanito, ma l’interesse egoistico è un surrogato scadente. I goffi annaspamenti dei politici nazionali, che devono rispondere a elettori frustrati, peggiorano le cose. Jacques Cailloux, capo economista per l’Europa della Royal Bank of Scotland, sottolinea gli errori. I leader dell’Eurozona, accusa Cailloux, non si sono resi conto delle dimensioni e della natura della crisi; con leggerezza hanno recitato a beneficio delle platee nazionali, puntando il dito contro i malfattori, anche se la colpa non è solo di chi si è indebitato scriteriatamente, ma pure di chi ha prestato soldi scriteriatamente. Cailloux ha ragione, e aggiunge che sono entrati in gioco due elementi nuovi: l’opinione pubblica tedesca si sta rivoltando contro la sua Banca centrale, e molti politici, fra cui anche il primo ministro olandese Mark Rutte, stanno ventilando la possibilità di un’uscita forzata.

Il senso dell’unione monetaria stava nella sua irrevocabilità: i suoi presunti benefici dipendevano da questo. Anche solo parlare di un’uscita dall’euro reintroduce il rischio di cambio. Inoltre, sostiene sempre Cailloux, «non vediamo nessun annuncio di misure che possano ricondurre il premio di rischio per l’uscita dall’euro a livelli trascurabili». Ora gli investitori devono fare i conti con rischi di debito pubblico, rischi finanziari e rischi di un’uscita dall’euro. Il risultato sarà una fuga dai titoli di Stato e dalle obbligazioni delle banche, e addirittura una disintegrazione dei mercati dei capitali in componenti nazionali.

Una volta che il tabù è stato infranto, la possibilità di un’uscita dev’essere presa in esame. È possibile o è auspicabile? Per discutere dell’argomento bisogna partire dalla Grecia. Nouriel Roubini, professore alla Stern School dell’Università di New York, sostiene, sul Financial Times, di questa settimana, che la Grecia dovrebbe dichiarare il default e uscire dall’euro. Non ho difficoltà a sottoscrivere la prima parte della tesi. Sono rimasti in pochi a credere che si possa evitare una riduzione drastica del debito pubblico del Paese ellenico. Non è questione di “se” accadrà, ma di “quando” accadrà.

Questo significherebbe un’uscita forzata dall’euro? La risposta è no. Lo sostengono Willem Buiter ed Ebrahim Rahbari (Citigroup). La Grecia uscirebbe effettivamente dall’euro se il resto della zona euro, inclusa la Banca centrale europea, non facesse nulla per ricapitalizzare e restituire liquidità alle banche greche: a quel punto creare una nuova moneta diventerebbe inevitabile. Ma i partner di Atene possono impedire senza problemi un esito di questo genere.
La Grecia dovrebbe cercare attivamente di uscire dall’euro, nel suo interesse? Gli economisti sono discordi. Per Buiter una svalutazione della moneta che sostituirebbe l’euro ad Atene sarebbe inutile: sarebbe erosa dall’inflazione. Roubini invece pensa che sia fondamentale. Concordo con Roubini: la Grecia ha un enorme disavanzo nel saldo con l’estero e al tempo stesso un’economia depressa. È necessaria una svalutazione consistente in termini reali, ed è molto più facile arrivarci con una svalutazione della moneta che con una deflazione.

L’idea di un’uscita dall’euro è difficile da realizzare. Da un punto di vista giuridico, comporterebbe un’uscita della Grecia dalla Ue. E la Grecia rimarrebbe esclusa anche dal mercato unico. Sarebbe impossibile uscire in modo rapido e pulito. L’annuncio scatenerebbe il panico e il Governo dovrebbe imporre un tetto ai prelievi di soldi dalle banche, oppure chiuderle e dovrebbe imporre controlli di capitale, in violazione degli obblighi sanciti dai trattati. Potrebbe ridenominare il debito contratto in patria, ma non potrebbe fare altrettanto per il debito contratto all’estero, e molte grandi aziende finirebbero in bancarotta. Un rapporto di Ubs stima il costo economico complessivo nel primo anno in un 40-50% del Pil.
Il contagio sarebbe inevitabile. Si farebbe uno sforzo per costruire un muro tagliafuoco fra il Paese che abbandona la moneta unica e altri Stati a rischio, ma questa barriera protettiva non reggerebbe alla pressione. La maggior parte del debito greco è detenuto da soggetti stranieri.

Una volta uscito un Paese, il rischio di cambio diventerebbe ancora più reale per tutti gli altri Paesi vulnerabili, perfino Italia e Spagna. Sia i Governi sia le grandi aziende farebbero fatica a farsi prestare soldi, le banche verrebbero prese d’assalto, la Bce sarebbe costretta a prestare soldi senza limiti e le interconnessioni globali degli istituti di credito apparirebbero terrificanti: secondo la Banca dei regolamenti internazionali, solo le banche americane sono esposte per 478 miliardi di dollari nei confronti di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna.
L’uscita, anche di un Paese piccolo e debole, fa paura. E se a uscire fosse un Paese forte, come la Germania? Anche qui si porrebbero questioni legali, anche se la Germania potrebbe ottenere modifiche dei trattati in senso a lei favorevole. In questo caso ci sarebbe una massiccia fuga di capitali, stavolta verso la Germania. Un’uscita della Germania, inoltre, destabilizzerebbe la parte rimanente dell’Eurozona, con probabile disintegrazione finale. Peraltro, anche il Paese forte subirebbe un pesante shock negativo: le sue banche vedrebbero svalutarsi le loro attività estere e l’export subirebbe un danno pesantissimo in termini di competitività. L’analisi di Ubs suggerisce che un Paese forte, come la Germania, potrebbe subire una perdita nel primo anno pari al 20-25% del Pil.

Oltre a ciò, l’uscita dall’euro (e, almeno in base alle leggi esistenti, anche dalla Ue) del Paese chiave metterebbe a rischio non solo il mercato unico, ma il tessuto cooperativo dell’Europa del dopoguerra, lasciando Germania e Francia isolate.
L’Eurozona non può rimanere dove sta, non può disfare quello che ha fatto e trova traumatico andare avanti. Ma l’idea di un’uscita è destabilizzante. In questo momento quello che serve è una forte espansione economica nei Paesi del nocciolo duro, anche e soprattutto attraverso un allentamento della politica monetaria della Bce, accompagnato da un sostegno forte a quei Paesi che devono fare i conti con mercati dei titoli di Stato poco liquidi, e in alcuni casi con forti riduzioni del debito. Sul lungo termine, il minimo necessario è un livello molto più alto di solidarietà e disciplina di bilancio, e un sistema bancario che abbracci l’Eurozona, con livelli di patrimonializzazione molto più alti.
È fattibile? Non lo so. Ma so qual è la posta in palio. Stare nella padella non è piacevole per Eurolandia. Deve evitare a tutti i costi di finire nella brace.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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