Ma l’altrove, dov’è? Solo Cina e Brasile sembrano in grado di attirare e pagare una certa quota del “producibile”. Ma il resto? A chi lo vendiamo, se restringiamo il monte salari dell’area più ricca – mediamente – del mondo? Prendiamo l’automobile. Marchione – molto dopo Karl Marx – ha scoperto che siamo in covraproduzione: c’è una capacità produtiva per 100 milioni di auto, ma un mercato (leggi: domanda solvibile, ndr) soltanto per 60-65″. Aumentando la “competitività” avremo una capacità produttiva maggiore (forza lavoro con meno tempi di pausa, più turni, catene di montaggio più veloci e moderne, ecc) e una domanda solvibile europea (oltre che statunitense) minore. Certo, Cina e altri Brics potranno assorbire un po’ più di prima, ma non quanto andranno diminuendo i consumi automobilistici dei due mercati “maturi” più ampi. Inoltre nei Brics ci sono stabilimenti autoobilistici moderni che sfornno modelli dal prezzo adeguato al contesto produttivo, un po’ come la “500” storica nell’Italia degli anni ’60. Ammesso anche che si venderanno in Cina, Brasile o Russia un po’ più di Ferrari, Mercedes o Maserati, a chi diavolo venderemo le centinaia di migliaia di Panda troppo costose per gli “emergenti” e – in prospettiva – anche per il mercato locale?
Non importa, dicono molto in alto. Bisogna procedere in questa direzione, alleggerendo il settore pubblico, cancellando la previdenza e la sanità e l’istruzione pubblica, cancellando il diritto del lavoro.
Il problema ulteriore, tutto italiano, è che la gestione di questo processo è oggetto di “competizione” tra il governo attuale (considerato incapace a livello globale, ormai) e una pletora di soggetti che devono ancora “trovare la quadra” sul dopo-Berlusconi. Risultato: un programma di impoverimento di dimensioni ciclopiche viene “benedetto” dalle nostre “forze democratiche” perché al primo posto viene messa la defestrazione dello psiconano, mentre il merito diventa “necessaria tranquillizzzione dei mercati”.
I resoconti e i commenti dei quotidiani di oggi e domani ci sembrano quasi trasparenti, nel descrivere l’aggresività messa in campo dai “decisori globali”. A partire dal mega-piano (“a leva finanziaria”, attenzione!) di salvataggio del sistema bacario europeo. 3.000 miliardi da utilizzare in caso di default greco, per impedire il “contagio” verso altri paesi. Domani potrebbe essere una buona giornata per le borse, ma per chi lavora sarà un passo avanti verso il disastro.
Dante Barontini
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da Il Sole 24 Ore
Maxi piano per salvare l’euro dal rischio contagio di un default della Grecia
dal nostro inviato Rossella Bocciarelli
WASHINGTON – Potrebbe essere il frutto davvero insperato di un momento di crisi finanziaria internazionale più grave di quella del 2008: un’azione finanziaria congiunta dei paesi delle due sponde dell’Atlantico per impedire che il default della Grecia trascini nel gorgo Eurolandia e provochi una recessione mondiale.
Secondo quanto riporta il quotidiano inglese Sunday Times i ministri delle finanze dei paesi di vecchia e nuova industrializzazione stanno mettendo a punto un piano per garantire una colossale potenza di fuoco anti-crisi dell’euro, in modo da evitare il contagio di un default della Grecia che potrebbe avvenire a novembre. Il piano non faceva parte dei draft d’ingresso delle riunioni del g20 ma sarebbe maturato nel corso di un’intensa attività della diplomazia finanziaria internazionale (anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha fatto riferimento nella sua conferenza stampa di sabato pomeriggio a «riunioni avvenute in formato riservato» per trovare una soluzione alla crisi europea mentre, sul versante finanziario il presidente del Financial stability board Mario Draghi ha avuto un’agenda fittissima di incontri bilaterali ad alto livello).
Fonti vicine al vertice tra ministri e Fondo Monetario Internazionale hanno detto al Times che il piano in gestazione (anche se, secondo quanto risulta a il Sole 24 Ore è poco realistico, al momento, pensare che vi partecipi l’intera compagine del g20, dunque anche “nuovi ricchi” come la Cina e l’India) avrebbe tre aspetti: la ricapitalizzazione delle banche europee vulnerabili, il fondo di bailout da 440 miliardi, innalzato fino a tremila miliardi e il default pilotato della Grecia, consentendo al paese di rimanere all’interno della Eurozona.«La questione non è più se la Grecia andrà in default quanto assicurare che ci sia la potenza di fuoco finanziaria per far fronte a un default e assicurare che il contagio non si diffonda attraverso l’Eurozona quando succederà», ha detto, parlando da Washington, Gerard Lyons, chief economist della banca Standard Chartered. Tanto più importante quindi, cercare di costruire una sorta di Tarp (Troubled asset relief program era il nome del programma costruito dopo la crisi Lehman in Usa da Tim Geithner) per l’Europa. Ma, secondo quanto ha affermato il repsonabile per l’Europa del Fmi Antonio Borges, è essenziale che anche l’Europa faccia la sua parte per salvarsi e riesca a superare la palude degli interessi partciolari.
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Europa e Italia, basta rinvii o sarà disfatta
di Alessandro Leipold
Chi l’avrebbe mai detto? Quando, nel 2007, a Dominique Strauss-Kahn fu chiesto di ridimensionare lo staff del Fondo Monetario Internazionale, molti hanno pensato subito al Dipartimento Europeo. L’Fmi, si diceva, non aveva, nè avrebbe avuto, un ruolo di rilievo in Europa, dove era ridotto ad esercitare una sorveglianza sempre più soppiantata dalle procedure interne della Ue stessa. Ecco invece, solo quattro anni dopo, una riunione annuale del Fmi tutta centrata sull’Europa e sulla crisi della zona euro. A Washington non si è parlato d’altro, in un vortice crescente di ansia e impazienza per le lungaggini e la timidezza della risposta europea.
Sebbene la situazione più grave sia quella della Grecia, l’ansia prevalente a Washington era per la situazione più pericolosa, quella con risvolti sistemici potenzialmente più dirompenti agli occhi di tutti, quella dell’Italia. È proprio per porsi in grado di far fronte a quest’ultima che all’Europa è stato insistentemente chiesto non solo di attuare rapidamente gli accordi presi al Consiglio europeo del 21 luglio, ma di andare ben oltre. Perchè quegli accordi non bastano più per parare il dilagarsi della crisi a paesi dalle dimensioni dell’Italia – paesi talmente indebitati da essere giudicati too big to save. Per farvi veramente fronte, ci vorrebbe quello scatto in avanti di “più Europa” – quel salto di qualità che invece continua a eludere i leader europei.
Non basta più, infatti, ampliare il ruolo dell’Efsf entro i limiti sin qui decisi (che prevedono la sua estensione agli acquisti di titoli pubblici e alla ricapitalizzazione delle banche).
Molti a Washington hanno indicato la necessità di pensare anche ad un organismo che possa agire come una sorta di garante di ultima istanza (ruolo che potrebbe anche essere della Bce). Anche senza tale ruolo, è opinione diffusa che sia necessario aumentare la dotazione dell’Efsf oltre i 440 miliardi di euro attuali (per quasi un terzo già impegnati in prestiti alla Grecia, all’Irlanda, e al Portogallo). Una possibilità a tal fine è quella di muoversi verso un organismo che sia in grado di incrementare le sue risorse grazie alla leva finanziaria. Per alcuni dei partecipanti alla riunione del G20, è in questo senso che va interpretato l’invito del comunicato di «massimizzare l’impatto» dell’Efsf. Tra questi, il Segretario al Tesoro americano Timothy Geithner aveva già indicato a Breslavia l’esempio del Talf (il programma di prestiti di emergenza statunitense, messo in atto dalla Federal Reserve di New York quando lo stesso Geithner ne era presidente) come possible mezzo per ampliare il raggio d’azione dell’Efsf. A Washington, Geithner ha richiamato anche altri interventi della Federal Reserve come possibili esempi. Almeno questa volta non è stato apertamente respinto: anzi, parole di apertura sono state espresse tra l’altro dal commissario Ue agli Affari Economici e Monetari, Olli Rehn, e dal ministro francese François Baroin. Quest’ultimo però, dopo aver riconosciuto che l’ipotesi poteva essere presa in considerazione, ha subito aggiunto «ma non ora».
È questo il nocciolo della questione. È questo continuo rinvio, questa snervante indecisione che – se dovesse continuare – sarà la disfatta dell’Europa. E i segnali non sono di buon auspicio. Seppure le riunioni di Washington sembrano avere marginalmente mutato le coordinate politiche della discussione, con una maggiore cognizione – almeno tra i ministri economici ed i governatori delle banche centrali presenti ai lavori – della necessità di mutamenti di fondo nella gestione della zona euro, la realtà resta quella di un sistema politicamente ingessato. Di modo che, nel comunicato G20, l’Europa non ha potuto promettere altro che la ratifica degli accordi già raggiunti sull’Efsf da parte di tutti i 27 paesi Ue in tempo per il prossimo vertice a Cannes il 3-4 novembre. Cioè tra sei settimane. Ma l’Europa non ha sei settimane di tempo. Già negli ultimi giorni i timori di mercato hanno lambito il cuore stesso della zona euro, facendo registrare un’impennata nel costo di assicurazione degli stessi bund tedeschi. Nessuno strumento appare più esssere risk-free.
Per quanto riguarda l’Italia, le riunioni di Washington confermano nuovamente che, al di là delle parole dei comunicati, per uscire dalla crisi dovremmo in prima istanza fare affidamento sui nostri propri sforzi. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha certamente ragione nel far risaltare, come ha fatto a Washington, l’importanza che la Germania mostri «la forza e la visione di investire di più sull’Europa, per il bene dell’Europa e della Germania stessa». Verissimo, però non basta. Il governo italiano deve fare la sua parte. E dal governo ci si attende ancora il piano di riforme per la crescita richiesto da tutti a gran voce. Invece, anche da noi, prevale il continuo rinvio e la snervante indecisione.
Il fatto forse più sconcertante che emerge dalle riunioni di Washington è che dell’allarme diffuso per la situazione e le prospettive economiche (con l’Italia di nuovo il fanalino di coda nelle previsioni del World Economic Outlook del Fmi) vi sia stata così poca eco nei corridoi politici romani, in tutt’altri calcoli impegnati, mentre l’immagine dell’Italia peggiora giorno per giorno. Alessandro Leipold
alessandro.leipold@lisboncouncil.net
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Pronta la tassa sulle transazioni finanziarie
dal nostro corrispondente Beda Romano
BRUXELLES. Ancora qualche giorno fa il segretario al Tesoro americano Tim Geithner ha criticato l’idea di introdurre una nuova tassa sulle transazioni finanziarie. L’ipotesi divide l’Unione e anche la zona euro. Ciononostante la Commissione Europea sta lavorando alacremente a un progetto che dovrebbe essere presentato a breve termine.
A metà settembre il presidente dell’esecutivo comunitario José Manuel Barroso ha avvertito che la presentazione potrebbe giungere «molto presto», forse già la settimana prossima. A Bruxelles circola una bozza di direttiva da cui emergono le prime linee guida, anche se mancano dettagli sulle aliquote che potrebbero essere applicate.
Secondo il documento, l’imposta si applicherebbe tra le altre cose alle transazioni relative a obbligazioni, azioni, derivati (in questo caso la tassa riguarderebbe il valore nozionale) e forse alcuni contratti riguardanti le valute. Sarebbero invece esenti le contrattazioni con le banche centrali e sul mercato primario, anche per evitare di penalizzare le aste pubbliche.
L’obiettivo delle autorità comunitarie è quello «di assicurare che le istituzioni finanziarie contribuiscano in modo giusto ai costi della recente crisi»; di «creare disincentivi appropriati contro le transazioni eccessivamente rischiose» e infine di «evitare una frammentazione del mercato interno», tenuto conto del numero crescente di tasse nazionali.
Il progetto di direttiva adotta una definizione piuttosto estensiva delle istituzioni finanziarie chiamate a versare l’imposta: basta che la banca in questione abbia in qualche modo una sede o una filiale nell’Unione. Una delle possibilità allo studio è quella di applicare una tassa dello 0,1% sulle transazioni di obbligazioni e azioni.
I contratti relativi ai derivati potrebbero essere soggetti a un’ulteriore imposta dello 0,01%. Secondo la Commissione, l’imposta potrebbe essere introdotta fin dal 2014. D’altro canto, in luglio Barroso stesso aveva lanciato l’idea che la tassa potesse diventare un modo per finanziare almeno in parte il bilancio comunitario 2014-2020.
A volere la nuova imposta sulle transazioni finanziarie sono soprattutto la Germania e la Francia. A metà agosto quando il presidente Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel si sono incontrati a Parigi, i due paesi hanno rilanciato l’idea. Per paura di vedersi ridurre il proprio diritto d’iniziativa, la Commissione ha quindi accelerato i lavori.
In una lettera inviata a Bruxelles il 9 settembre scorso, i ministri delle Finanze tedesco e francese, Wolfgang Schäuble e François Baroin, hanno sottolineato che l’aliquota applicata deve essere bassa «per minimizzare i rischi di distorsioni ed elusioni» e hanno anche precisato che le scelte sull’uso del gettito non devono essere «una precondizione per giungere a un accordo».
Molti diplomatici sono scettici sul successo di un’iniziativa controversa. Una tassa di questo tipo dovrebbe essere globale per essere efficace, ma gli Stati Uniti sono contrari. Nella stessa Unione, Regno Unito e Svezia sono critici di fronte a tale ipotesi. Di recente, Schäuble ha quindi proposto di introdurre la tassa nella sola zona euro, quasi un esempio di cooperazione rafforzata.
Anche questa ipotesi però non sarà facile da attuare, nonostante il 65% degli europei sia favorevole a questa imposta, secondo un recente Eurobarometro. L’Olanda si è già opposta. E anche Malta rumoreggia (secondo un sondaggio, appena il 30% dei maltesi vede di buon occhio una nuova tassa sulle transazioni finanziarie).
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EuroCrisi. Forse una svolta a Washington/IMF. Teniamoci forte: in arrivo una special facility (su EFSF) con forte leva, 2000 miliardi euro?
Quello che ci chiede l’Europa: l’Italia riduca il carico fiscale sul lavoro e tagli la previdenza
di Antonio Tajani e Olli Rehn
L’andamento dei mercati è una chiara spia della crisi di fiducia che colpisce l’Europa: nelle capacità di ridurre l’indebitamento portandolo a livelli sostenibili, di crescere e di essere competitivi, di dare risposte politiche comuni adeguate. In gioco vi sono il benessere dei cittadini e il proseguimento del processo d’integrazione. Traendo lezioni dalla crisi, l’Europa si è dotata di strumenti per il miglioramento della governance economica: un nuovo sistema di vigilanza finanziaria, un più efficace coordinamento delle politiche economiche nazionali nel quadro del “Semestre europeo” e un pacchetto legislativo.
Tutto questo per rafforzare il Patto di Stabilità e Crescita e contenere gli squilibri macroeconomici. Senza dimenticare la risposta comune alla crisi del debito attraverso gli aiuti concreti forniti dal cosiddetto Fondo salva stati o il ruolo cruciale assunto dalla Banca centrale europea. Inoltre, la Commissione presenterà a breve un rapporto sulla fattibilità degli euro bond.
La contropartita indispensabile della solidarietà europea è un comportamento responsabile da parte dei singoli Stati, che hanno il dovere di attuare politiche in linea con l’appartenenza all’euro. In questo momento l’Italia ha la grande responsabilità di reagire alla perdita di fiducia nel Paese che genera riflessi negativi sulla stabilità della zona euro. Serve, senza indugio, una risposta forte non solo sul piano del rigore fiscale ma anche per il rilancio della crescita, senza la quale si rischia di apparire poco credibili.
La manovra licenziata dal parlamento è un passo importante nella giusta direzione. Consentendo di accelerare la riduzione del debito, le misure di consolidamento fiscale aiutano a ristabilire la fiducia dei mercati finanziari. Per aumentare la credibilità, occorre definire rapidamente la prevista riforma fiscale e perseguire seriamente la lotta all’evasione. Inoltre, l’introduzione del vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione, se accompagnata dal necessario adeguamento legislativo in conformità con le regole europee e, dal rafforzamento delle modalità di gestione e monitoraggio dei conti pubblici, sarebbe una svolta importante sulla via del rigore fiscale.
Infine, rimangono margini per intervenire sulla spesa pensionistica, limitando ulteriormente il ricorso alle pensioni di anzianità e accelerando la transizione a un’età più elevata per le donne nel settore privato.
Risanamento delle finanze pubbliche e riforme strutturali si rafforzano reciprocamente. La rapida riduzione del debito pubblico è la premessa per una crescita sostenibile attraverso maggiore fiducia e tassi d’interesse più bassi, le riforme strutturali creano crescita consentendo di conseguire un consolidamento durevole. Occorre dunque continuare con determinazione sulla via del rilancio della crescita, trasformando la sfida della crisi nell’opportunità di avviare un profondo processo di modernizzazione dell’Italia.
Sia chiaro: la crisi non ha cambiato le priorità di politica economica per il Paese, ma ha reso più urgente il bisogno di affrontarle. Le cose da fare sono sostanzialmente note e più volte riprese nei documenti della Commissione, da ultimo le raccomandazioni indirizzate ai singoli Stati alla fine di giugno 2011. Si tratta di mettere in atto un insieme coerente di riforme che affronti le debolezze strutturali nei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi.
Innanzitutto, la riforma fiscale deve essere definita in modo da rendere più efficiente il sistema tributario. È necessario spostare la tassazione da lavoro e imprese verso immobili e consumo, senza perdite di gettito per l’erario. L’elevata tassazione del lavoro è uno dei fattori che spiega il basso tasso di occupazione in Italia, specialmente quella femminile. Per le imprese, sarebbe utile un regime fiscale che renda più neutrale la scelta tra finanziamento con capitali di rischio e indebitamento attraverso le banche. Occorre rendere il mercato del lavoro più flessibile ed equo in entrata e uscita, evitando di penalizzare le nuove generazioni che soffrono di elevati tassi di disoccupazione e di condizioni di lavoro precarie con limitate prospettive di sviluppo professionale. Nel contempo, il sistema di ammortizzatori sociali deve essere rivisto per rispondere alle esigenze di un mercato del lavoro più dinamico. È opportuno investire meglio sul capitale umano, con politiche d’istruzione e formazione legate anche all’evoluzione della domanda delle imprese. Le parti sociali devono sviluppare un sistema di relazioni industriali che promuova la competitività, aiuti a riconoscere il merito e a premiare le qualifiche, valorizzando così la formazione di capitale umano e favorendo la mobilità sociale.
Bisogna portare avanti con più decisione il processo di apertura alla concorrenza nel settore dei servizi, in particolare le professioni e i servizi pubblici locali, proseguendo le azioni già intraprese. Per rendere più competitivo il settore produttivo, occorre puntare su R&S e prodotti di qualità a forte valore aggiunto, specie in settori emergenti, quali le tecnologie verdi, le biotecnologie o le nanotecnologie. Servono misure per favorire processi produttivi basati sull’utilizzo più efficiente delle risorse e su un tenore di carbonio più basso, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica del Paese, salvaguardare l’ambiente e creare occupazione.
Questo processo di modernizzazione richiede un contesto politico e istituzionale che metta al centro le esigenze delle imprese e del lavoro, con pubbliche amministrazioni più snelle ed efficienti, semplificazioni di regole e procedure e una giustizia civile più rapida.
Infine, nel contesto attuale, il Paese non può più permettersi di sprecare miliardi di euro di fondi europei – specie al Sud – bloccati o spesi male. Occorre un piano straordinario che acceleri il loro utilizzo per vere priorità in grado di rilanciare crescita e competitività.
Nonostante le difficoltà, l’Italia ha ancora molte carte da giocare. Deve farlo in fretta e con convinzione, dandosi priorità politiche chiare su dove investire in modo più efficiente risorse limitate per trarre il massimo impulso per la crescita. A questa rivoluzione devono contribuire tutti, istituzioni, soggetti politici, parti sociali e rappresentanze economiche, superando interessi di parte e corporativismi che da anni bloccano il Paese a danno dell’interesse generale dei cittadini. È una responsabilità prima di tutto nei confronti della nuove generazioni, a cui abbiamo il dovere di lasciare un’Italia e un’Europa politicamente ed economicamente solide, con finanze sostenibili e prospettive di realizzazione personale e di lavoro.
Antonio Tajani: è vicepresidente della Commissione europea, responsabile per l’Industria e l’imprenditoria
Olli Rehn: è commissario europeo per gli Affari economici e monetari
ndr. e se pure Tajani ha una credibilità economica, dov’è andata a finire la credibilità europea? o forse serviva un “fedele al capo” per convincere Silvio che la sua ora è definitivamente arrivata?
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G20: maxi piano da 3mila miliardi per il ricapitalizzare le banche
I grandi della terra pronti a salvare gli istituti di credito prima di lasciare andare in default la Grecia. L’amministratore delegato di Unicredit, Ghizzoni: “L’Italia deve prendere decisione rapide”
MILANO – Un maxi piano da 3mila miliardi per salvare l’euro ricapitalizzando le banche e dando più risorse al fondo salva-stati in modo da consentire un default della Grecia sui suoi debiti. Mentre cresce l’attesa per la riapertura dei mercati in una settimana che si annuncia cruciale sia per Atene sia per la zona euro. Secondo il Sunday Times i paese del G20 hanno discusso un nuovo schema, che potrebbe essere presentato a giorni, mirato a salvare l’euro e la cui introduzione è stata sollecitata anche da Stati Uniti, Cina e Fmi.
Il primo passo del maxi-piano d’emergenza rivelato dal settimanale britannico dovrebbe essere una sostanziale iniezione di capitali in almeno 16 banche europee. Secondo gli analisti il conferimento potrebbe riguardare capitale “di contingenza”, vale a dire riserve che potrebbero essere utilizzate solo in caso di bisogno. A quel punto, essendo stato approntato un sostegno alle banche, la Grecia potrebbe andare in default, vale a dire in stato d’insolvenza sui propri debiti: sarebbe stato risolto così uno dei principali ostacoli che impediva ai politici europei di avallare un default di Atene a causa della loro preoccupazione per l’impatto sulle banche continentali – a partire da quelle francesi – che detengono miliardi di euro di titoli di stato ellenici.
Secondo fonti a Washington citate dallo stesso Sunday Times sarebbe inoltre probabile che il fondo salva-stati Efsf riceva risorse aggiuntive e venga anche dotato della possibilità di attingere a finanziamenti sul mercato allo scopo di aumentare la sua capacità d’intervento con un costo complessivo dell’intero piano che si aggirerebbe sui 3mila miliardi di euro.
La notizia sul nuovo piano giunge dopo le pressioni pubbliche da parte del segretario al Tesoro Timothy Geithner che sabato ha messo in guardia dalla “minaccia di default a cascata, corse nagli sportelli e rischi catastrofici che devono essere levati dal tavolo, perché in caso contrario tutti gli altri sforzi saranno minati, sia all’interno dell’Europa che a livello globale”.
Ma le attese sono anche concentrate sulla Banca Centrale europea, che potrebbe annunciare ulteriori misure per facilitare l’accesso delle banche alla liquidità, a partire da un taglio d’emergenza dei tassi.
Di certo, non c’è tempo da perdere, nemmeno per l’Italia, come hanno avvertito da Washington nelle ultime ore anche le due principali banche italiane, Unicredit e Intesa Sanpaolo che figurano anche nel ristretto gruppo dei principali istituti di eurolandia. “L’Italia – ha spiegato l’ad di Unicredit Federico Ghizzoni – in questo momento è percepita come un’area di massima attenzione. E’ ovviamente un paese molto importante, non solo in Europa ma anche al di fuori. La crisi finanziaria ci ha colpito, lo sappiamo tutti, più di altri paesi, ed è importante soprattutto agli occhi di altri operatori americani, ma anche europei, che l’Italia nell’ambito del problema europeo a sua volta prenda delle decisioni rapide sul debito e sul rilancio del paese. Ho trovato molta attenzione e per certi versi molta preoccupazione verso l’Europa e in parte anche verso l’Italia”.
Come può recuperare l’Italia? “La decisione – ha detto il ceo di Intesa Sanpaolo Corrado Passera – è nelle mani del Parlamento e del presidente della Repubblica. Certamente questo è un momento in cui un governo capace di fare un piano che riesce a mettere insieme le parti sociali, che riesce a far condividere a un paese sacrifici di breve termine per benefici di lungo periodo ovviamente sarebbe più adatto. Però quale sia, se questo governo o un altro o come fatto non sta noi a dirlo. Certo sarebbe necessaria una gestione complessiva più efficace di quella che è stata negli ultimi tempi”.
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