La siatuazione si va facendo drammatica. Il paese non ha più credibilità sui mercati internazionali e gli acquisti di Btp della Bce (soltanto sui decennali, non sulle scadenze più brevi) non è più sufficiente ad arginare l’ondata delle vendite.
Perché la situazione è grave? Perché lo stato italiano ha un debito molto alto, che va rifinanziato continuamente (con aste pubbliche in cui “offre” titoli in cambio di denaro fresco, con cui paga gli interessi su altri titoli in essere e salda quelli in scadenza). Se gli interessi da pagare (il “rendimento”, che viaggia ormai cerso il 7% sui decennali) sale troppo rispetto al tasso di crescita economica (in questo momento di fatto a zero), lo stato diventa un debitore poco affidabile.Una bassa crescita significa infatti poche entrate fiscali e quindi poche risorse per far fronte agli impegni.
*****
Francesco Piccioni
Il governo fa spread
La somma comunque dà un risultato pesante: le borse hanno ripreso a calare in modo consistente, dopo un mese che aveva alternato momenti di depressione e altri di euforia, con prevalenza dei secondi. La peggiore è stata Piazza Affari, che ha perduto il 3,82% (con le banche e la galassia Fiat sotto attacco). Soprattutto, i titoli di stato italiani hanno visto ampliare il differenziale (spread) rispetto a quelli tedeschi, fino a livelli mai visti da quando esiste l’euro (404 punti). Tradotto in tassi di interesse che devono garantire per attirare compratori, i Btp decennali hanno superato la soglia del 6% (6,18), cominciando a intravedere quello che è considerato «il punto di non ritorno»: il 7%.
Sull’argomento, i giornali specializzati forniscono grafici e comparazioni con la vicenda degli altri paesi Pigs, da cui risulta che statisticamente abbiamo circa «100 giorni» per evitare di fare la stessa fine. Da qui nasce il coro unanime di imprese e banche rivolto al governo: «il tempo è scaduto, bisogna agire subito».
Dal punto di vista imprenditoriale, però, il problema è proprio il governo. Se si è rappresentati da un premier che la mattina attacca l’euro come «moneta che non ha mai convinto nessuno» e poi il pomeriggio dice il contrario, i mercati fanno due più due senza nemmeno rifletterci sopra: quel paese in queste condizioni (purtroppo è il nostro) non è credibile. Quindi, se vuole prestiti (questo sono i titoli di stato), deve pagare molto di più. L’avvertimento più chiaro è arrivato ieri da Pier Carlo Padoan, capoeconomista dell’Ocse: «Pensare che nessuno ci farà fallire perché siamo troppo grandi come italiani è un gioco troppo pericoloso e non vero». Ovvio il consiglio: «non scherzare col fuoco».
Anche perché l’Italia non può confidare in un «aiuto europeo», visto che l’Unione appare capace di mettere sotto tutela il debito pubblico di alcuni paesi, ma – anche per divisioni interne – non di elaborare una strategia di incentivazione della crescita. Tanto da chiedere, proprio alla vigilia del G20, aiuto a sua volta. E questo ha avuto il suo peso nel determinare la giornata di ieri.
Ma anche le decisioni prese nei giorni precedenti stanno producendo effetti collaterali imprevisti. Per esempio: le banche che hanno titoli di stato greci dovranno accettare di perdere circa il 50% del valore ufficiale. Sembrava un colpo di genio averglielo imposto in modo che potesse sembrare «volontario», così da non dover dichiarare il default di Atene. Ma proprio questo ha reso di fatto inutili i credit default swap (cds, quasi delle «polizze assicurative») sul debito greco. Tradotto: chi aveva comprato quei cds non avrà nessun rimborso. Il che equivale a dichiarare i cds in generale carta straccia.
Tutto bene, si potrebbe pensare; «gli speculatori alla fine la pagano». Vero, ma c’è una conseguenza: senza un’«assicurazione», chi ha titoli di stato rischiosi li vende, deprimendo così il prezzo e facendo salire sia il rendimento che lo spread rispetto ai titoli più sicuri. E non ha aiutato nemmeno la decisione dell’European banking authority (si veda l’articolo di Joseph Halevi) di considerare «tossici» i titoli di stato dei paesi deboli e non anche i «prodotti derivati» di origine tanto privata quanto incerta. A risentirne sono state soprattutto le banche che fanno il loro mestiere normale (credito alle imprese e ai cittadini).
Il tutto dà la forte sensazione che ognuno si muova per conto suo, difendendo interessi particolari a scapito di quelli altrui; ma soprattutto a scapito della stabilità del sistema che c’è mentre si dice di voler realizzare la stabilità di un sistema scritto nei manuali.
Una cosa è infine certa: se si sperava che fosse l’America a poter rivitalizzare la situazione, meglio lasciar perdere. Ieri è fallito un grande fondo di investimento privato – Mf Global – guidato da Jon Corzine, noto per essere stato uno dei boss di Goldman Sachs ed ex governatore del New Jersey. E il mercato immobiliare Usa – dice la Cnn – si sta avviando alla sua «terza depressione». Ah, i bei tempi in cui si poteva tremare se si parlava della «doppia» (double dip)…
Cina supercauta: «L’Europa può farcela»
Nel prossimo G20 di Cannes la Germania fa sapere che punterebbe a ottenere una più stretta regolamentazione del mercato finanziario internazionale. Secondo fonti governative anonime all’agenzia tedesca Dpa, dal punto di vista del governo della cancelliera Angela Merkel non tutte le decisioni previste per il vertice del 3 e 4 novembre sono sufficienti, in particolare per quel che riguarda l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie a livello internazionale.
OCSE «Incertezze drammaticamente aumentate»
Non possiamo aspettare l’Europa. Tutto dipende da noi
Editoriale di Roberto Napoletano
I mercati peggiorano per almeno due buoni motivi. Il primo è che l’accordo europeo è meno progredito di quanto si attendevano gli investitori. Restano in piedi vincoli e inghippi tecnici di ogni genere, la capacità di azione dell’Efsf, il Fondo salva-Stati, rimane colpevolmente lenta, il sostegno alle banche (a partire dalla Grecia) compare sulla scena ma appare incerto, la zoppìa dell’Europa (c’è la moneta, mancano politiche fiscali e di bilancio comuni) non è stata neppure scalfita.
Il secondo motivo, purtroppo, riguarda direttamente noi. La situazione italiana è quella che è, le cose da fare (le sanno tutti, le conosce bene di certo anche il nostro premier) sono state annunciate, ma si è aspettato più di due mesi non per farle bensì per riprodurle, in modo incompleto, in una lettera di impegni inviata e approvata con riserva dall’Unione europea. La situazione (specificamente la nostra) si è deteriorata tra un’esitazione e l’altra, ci siamo messi in questo pasticcio da soli e da soli possiamo (dobbiamo) uscirne.
I tempi dell’Europa sono i tempi dell’Europa, i trattati sono i trattati dell’Europa e dicono, ad esempio, che la Bce deve operare in un contesto e con prerogative diverse da quelle in cui opera la Federal Reserve negli Stati Uniti. Ridurre questi tempi e cambiare i trattati si può e si deve (pubblichiamo nella stessa pagina un manifesto del Sole per l’Europa in cinque punti) ma è bene tenere a mente che il processo sarà lungo, faticoso, non privo di insidie di ogni tipo. I tempi dell’Italia sono i tempi dell’Italia, dipendono da noi non da altri. Dipende da noi (non da altri) se le pensioni di anzianità sono sparite dal menù della lettera di impegni o se non si affrontano, con la necessaria incisività, le due questioni centrali che riguardano l’insostenibilità del prelievo fiscale e contributivo che grava su imprese e lavoratori e il fardello del quarto debito pubblico mondiale che ipoteca il futuro di tutti i cittadini italiani.
La domanda da porsi oggi è una sola: siamo capaci davvero di fare sia quello che continuiamo ad annunciare nella lettera (riforma del mercato del lavoro e del pubblico impiego, pensioni di vecchiaia a 67 anni, dismissioni, liberalizzazioni, meno tasse sul capitale delle imprese) sia quello che nella lettera non c’è ma va fatto (pensioni di anzianità, redistribuzione dei pesi fiscali, interventi diretti a ridurre in modo significativo il debito pubblico)? Non possiamo permetterci di aspettare l’Europa, dobbiamo dimostrare di essere padroni del nostro tempo. Lo spread del BTp con i titoli pubblici tedeschi che supera il muro dei 400 punti esprime la credibilità che ha, sul mercato, lo Stato italiano.
Questo giornale, in tempi non sospetti, ha chiesto prima al ministro dell’Economia e poi al presidente del Consiglio di valutare un passo indietro, ha invocato successivamente la responsabilità etica che viene prima di quella politica. Ci permettiamo di sottolineare oggi che la debole credibilità incide pesantemente sui tassi di interesse che lo Stato italiano paga per collocare i suoi titoli, sul costo del denaro che le imprese devono pagare alle banche, sulla pesantezza per le famiglie delle rate dei mutui nuovi e di molti dei vecchi. L’elenco potrebbe continuare.
Ce n’è abbastanza perché tutti si facciano un esame di coscienza e ne traggano le debite conseguenze. L’Europa arriverà, l’Italia o risponde oggi (anzi ieri) o firma la sua condanna. Non c’è nulla di più immorale di fare pagare alla piccola Italia, e ai suoi cittadini, il conto di una crisi globale che viene da fuori e che noi italiani (per una volta) non abbiamo contribuito a determinare. Sta in noi, ripeterebbe oggi Carlo Azeglio Ciampi. Ci sono uomini e forze politiche, nel Governo e nella maggioranza, e non solo, in grado di accogliere questo appello? Con le parole si è giocato già troppo e questi giochi hanno un costo che viene pagato dalla comunità dei cittadini. Chi ha a cuore il futuro del Paese deve essere in grado di assicurare l’obbligo etico dell’azione. A nessuno si potrebbe perdonare di avere messo in pericolo il lavoro e il risparmio degli italiani.
*****
Tra l’Europa e l’Italia un vincolo reciproco
di Franco Debenedetti
Il vincolo estero è stato sempre presente nella nostra economia. Per restare anche solo al dopoguerra, dopo l’inizio dell’integrazione europea, con l’adesione allo Sme (il Sistema monetario europeo) del 1987 il vincolo del tasso di cambio veniva assunto come meccanismo di disciplina atto a promuovere la disinflazione e la convergenza macroeconomica nei Paesi membri inclini all’inflazione.
Fu poi la volta del trattato di Maastricht firmato nel 1992 da Guido Carli, e – dopo la svalutazione di quello stesso anno – dell’accordo con Van Miert firmato da Beniamino Andreatta quale ministro degli Esteri, e infine l’entrata nell’euro.
Tuttavia, c’è una fondamentale differenza tra quelle storie e la vicenda attuale, quella iniziata con la lettera Trichet-Draghi e “chiusa” giovedì scorso con la sottoscrizione degli impegni da parte del presidente del Consiglio. In passato il rapporto Italia-estero era, per così dire, unidirezionale: consisteva in vincoli posti da Stati e monete estere al nostro Paese e alla lira. Invece, questa volta il rapporto è per così dire bi-direzionale: accanto alla richiesta all’Italia di adottare riforme che mettano a posto casa nostra, c’è una richiesta che va in senso opposto, agli altri Paesi dell’Eurozona perché attuino riforme alla costruzione dell’euro.
E come l’Italia è oggetto di pressante attenzione per la dimensione del suo debito pubblico, così l’Italia è il Paese che più di altri rende evidente l’entità delle manutenzioni di cui ha bisogno l’edificio dell’euro. Infatti, nei riguardi di chi fa conti falsi, si è legittimati a intervenire con durezza, e per provvedere ai problemi causati da chi non è grande si può (rectius, si sarebbe potuto) intervenire con facilità. Invece l’Italia, grande e formalmente non in violazione degli accordi, diventa il banco di prova per saggiare l’adeguatezza delle misure che vengono prese a livello europeo.
Con questo non si vuole affatto “chiedere uno sconto”: le riforme che ci vengono ora perentoriamente richieste sono quelle per cui da anni, in alcuni casi da decenni, si batte la parte più avvertita del Paese. Men che mai vuole essere giustificazione per le recenti esternazioni del premier sulla moneta comune. E neppure lamentare gli effetti discriminanti che le misure imposte dall’Eba per il nuovo stress test avrebbero per le nostre banche. Vuol solo ricordare che, se il nostro debito pubblico è sotto attacco, è anche perché le istituzioni europee non hanno gli strumenti per sopperire alla crisi di liquidità di un suo membro, per non parlare di una crisi di insolvenza.
Ci sono le critiche tecniche alle misure adottate. C’è l’illusione che «qualche alchimia finanziaria possa moltiplicare magicamente 300 miliardi» (Roberto Perotti, sul Sole 24 Ore del 28 ottobre); c’è il rischio di fare del fondo salva-Stati una collateralised debt obligation, cioè proprio lo strumento che ha prodotto la bolla del credito; c’è il problema delle banche, come ricapitalizzarle e quali norme imporre. C’è la constatazione che l’euro, che ha la Banca centrale (per ora) più indipendente di tutte, manca di un prestatore di ultima istanza.
E c’è il problema politico: l’Eurozona, per come si sono messe le cose, per funzionare dovrebbe diventare un’unione fiscale, e questo è politicamente non accettabile. Una costituzione europea che chiedeva assai di meno è stata bocciata dai referendum; in Germania tutte le decisioni che comportano un aumento del debito tedesco devono essere approvate dal Bundestag a maggioranza assoluta. Il mercato finanziario europeo comprende 27 Stati, non solo 17: limitazioni della sovranità che risolvano problemi a livello euro potrebbero crearne di dirompenti a livello Unione. Quando le prescrizioni sono dettagliate e precise, quando si mandano funzionari europei a sorvegliare dall’interno il funzionamento dei ministeri, quando si esigono cambiamenti nella Carta costituzionale di Stati membri, quando non si va distanti dall’attendersi dalla massima istituzione di un Paese iniziative non conformi alla sua natura e che travalicano le sue prerogative, è evidente che ci si avvicina al confine della legittimità democratica: perché, alla fine, sono sempre e solo i rappresentati eletti che rispondono degli atti di governo e che hanno il potere di farli rispettare, garantendo, se necessario, l’ordine pubblico.
Simmetria nella necessità di riforme, simmetria nella difficoltà di attuarle: la soluzione dei problemi strutturali dell’euro, e l’attuazione delle riforme in Italia, sono entrambi problemi politici. Come sono chiari i vincoli che rendono difficile ai governi dell’Eurozona prendere decisioni tempestive e adeguate, così alle autorità europee sarà chiaro che gli accordi sottoscritti dal presidente italiano pro tempore riguardano in realtà i governi futuri. Per noi, quindi, è sterile stare a discutere sui termini di quegli accordi: si tratta di esprimere forze e leader politici che sappiano come attuarli.
*****
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa