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L’economia politica tra Bce e S&P

L’economia politica tra Bce e S&P
Tommaso De Berlanga

Viviamo in tempi contraddittori. Un po’ troppo, se dobbiamo dar credito al presidente del consiglio europeo. Il quale ha posto un problema a suo modo «filosofico», che anche noi avevamo – inascoltati – evidenziato più volte. È «contraddittorio da una parte dire che i mercati sono la causa del problema e dall’altra aspettare che siano i mercati a valutare l’efficacia delle soluzioni». In medicina, nessuno chiede al tumore di essere giudice della terapia. O meglio, la terapia risulta efficace se annienta il tumore, ossia la causa della malattia. Che in economia sono «i mercati» e il loro funzionamento malato (in realtà «obbligato»). Specie se, come in questo caso, «le soluzioni» consistono in drammatici tagli al «modello sociale europeo»; quindi alla tenuta stessa della coesione sociale nel vecchio continente. A suo modo, lo stesso problema è stato sollevato dal capo-economista di Standard&Poor’s, JeanMichel Six. La Ue – ha detto – «oltre al rigore deve puntare sulla crescita», che nell’ultimo vertice di Bruxelles è stata assai poco presa in considerazione. La prospettiva, dal suo punto privilegia di osservazione, è preoccupate: «c’è la possibilità molto elevata che la zona euro conosca una recessione più grave di quella che avevamo previsto», a causa della pressione dei mercati finanziari che chiedono una riduzione del debito pubblico. Lo stesso Six – uno di quelli che «dà il rating», dando spesso l’impressione di dare i numeri – ammette con il taglio della spesa pubblica la recessione non può che peggiorare. E quindi «valutiamo al 40% la possibilità di una recessione davvero pesante», con l’economia che arretra per un intero anno. Almeno. «Se ne fotte», scusare l’oxfordismo, Jurgen Stark, il« falco» dimessosi dalla Bce quando questa – con Trichet – aveva iniziato ad acquistare bond pubblici dei paesi in difficoltà (come i Btp italiani). Per lui, qualsiasi cosa accada, «l’intervento sui titoli di stato da parte dell’Eurotower non è la soluzione». Perché «la missione principale della Bce è mantenere la stabilità dei prezzi». La metafora del medico torna utile anche stavolta: secondo questa scuola di pensiero – in realtà molto «operativa» e ben poco «teorica» – il paziente sta bene se la temperatura non aumenta. Anche se nel frattempo è morto di freddo.

da “il mnifesto”
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Il tallone d’Achille di Angela
Guido Ambrosino

Angela Merkel può tirare un sospiro di sollievo. I critici da destra della sua politica europea non hanno prevalso in un referendum tra gli iscritti al partito liberale Fdp, alleato di democristiani e cristiano-sociali nella coalizione di governo. Tuttavia i dissidenti “euronordisti”, che non muoverebbero un dito per soccorrere gli stati del sud, raccolgono più del 40% dei consensi. Dimostrano così di poter condizionare la politica del governo. La Fdp, ridotta al 3% nei sondaggi, è il tallone di Achille del governo. Nessuno può garantire che tenga fino alla scadenza della legislatura nel 2013.
Gli “euronordisti”, raccolti attorno al deputato liberale Frank Schäffler, pensano che la cancelliera abbia sbagliato a impegnare soldi dei contribuenti per i crediti alla Grecia e per il fondo salvastati Efsf, e che sbagli a stanziarne altri per il meccanismo di stabilità permanente Esm. La loro ricetta è drastica: lasciare che Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda falliscano, come giusta punizione per i loro peccati di finanza facile; togliergli di mano l’euro perché resti la solida moneta delle virtuose economie del nord.
Gli iscritti alla Fdp potevano optare per un documento del gruppo Schäffler o per un testo della direzione del partito, a difesa delle decisioni prese dal governo. Il primo documento ha raccolto il 44,2% dei consensi. Quello della direzione il 54,4. «La Fdp rimane un partito pro-europeo», ha commentato Philipp Rösler, ministro dell’economia e vicecancelliere, da maggio alla guida della Fdp.
Eppure non c’è da star tranquilli. La discussione nella Fdp sull’Europa è a livello d’osteria. La gamma di opzioni va dal consiglio rivolto da Schäffler ai greci – «Che vendano le loro isole» – a un’interpretazione rigorista della cura di “stabilità” imposta da Merkel, tutta pene e sanzioni per gli spreconi: «Le nostre condizioni per ulteriori aiuti – scrive la direzione della Fdp – sono obblighi severi per i paesi interessati». Siamo ben lontani dalla cultura europeista di un liberale della vecchia scuola come Hans-Dietrich Genscher, ministro degli esteri dal 1974 al 1992, presidente onorario del partito.
Rösler, orfano vietnamita adottato da una famiglia tedesca, è persona gentile e simpatica, ma finora non ha saputo far risalire la Fdp nei sondaggi.
Qualche speranza veniva riposta nel 32enne Christian Lindner, segretario generale del partito fino al 14 dicembre, quando si è dimesso senza spiegare il perché, ma certo anche per contrasti sulla gestione del referendum. Lindner parlava con eloquenza di liberalismo politico, e non solo economico. Aveva letto Ralf Dahrendorf, e lo citava. Stava lavorando a una riscrittura del programma. Se n’è andato due giorni prima della conclusione del referendum, forse perché non voleva essere coinvolto in un crollo del gruppo dirigente, che teme imminente.
Lo ha subito rimpiazzato Patrick Döring, un “economicista” di destra, che ha cercato di ridimensionare il seguito degli euroscettici, precisando che si tratta solo del 13,4% degli iscritti. Ma, se due terzi non si pronunciano, o perché disaffezionati o indifferenti, i dissidenti pesano ben di più – oltre il 40% – tra i membri attivi. E se lo stesso referendum si tenesse tra gli iscritti alla Cdu e alla Csu, troverebbe anche lì sostenitori.

 

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