A novembre 2011 gli occupati sono 22.906 mila, in diminuzione dello 0,1% (-28 mila unità) rispetto a ottobre. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione diminuisce dello 0,3% (-67 mila unità).
Il tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,2 punti in termini tendenziali.
Il numero dei disoccupati, pari a 2.142 mila, aumenta dello 0,7% (+15 mila unità) rispetto a ottobre. La crescita riguarda la componente femminile. Su base annua il numero di disoccupati aumenta del 5,6% (+114 mila unità).
Il tasso di disoccupazione si attesta all’8,6%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre e di 0,4 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 30,1%, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a ottobre e di 1,8 punti su base annua.
Gli inattivi tra 15 e 64 anni diminuiscono dello 0,1% rispetto al mese precedente. In confronto a ottobre, il tasso di inattività rimane stabile e pari al 37,8%.
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Il diavolo sta sempre nei dettagli, ma anche il quadro generale – a questo punto – non riesce più a nascondere la realtà. La disoccupazione ha ripreso a crescere velocemente, soprattutto a carico dei giovani e delle donne. I dati dell’Istat sono chiari, nella loro crudezza. A novembre dell’anno appena concluso il numero degli occupati è sceso di 28.000 unità rispetto al mese precedente. Sembra poco, ma nel corso dell’intero anno la caduta è di poco superiore (67mila), segno che c’è stata un’accelerazione secca. A pagare questa variazione sono quasi soltanto le donne. CONTINUA|PAGINA4 Francesco Piccioni
Il diavolo sta sempre nei dettagli, ma anche il quadro generale – a questo punto – non riesce più a nascondere la realtà. La disoccupazione ha ripreso a crescere velocemente, soprattutto a carico dei giovani e delle donne.
I dati dell’Istat sono chiari, nella loro crudezza. A novembre dell’anno appena concluso il numero degli occupati è sceso di 28.000 unità rispetto al mese precedente. Sembra poco, ma nel corso dell’intero anno la caduta è di poco superiore (67mila), segno che c’è stata un’accelerazione secca. A pagare questa variazione sono quasi soltanto le donne.
Per valutare appieno la gravità della situazione sarà bene non soffermarsi sul «tasso» di disoccupazione (cresciuto solo dello 0,2% in un anno) ma sui numeri assoluti. I disoccupati, infatti, superano abbondantemente i 2 milioni, con 114.000 persone in più rispetto al novembre 2010. Anche la percentuale, in questo caso, fa effetto: +5,6%. Su base annua, la situazione femminile è molto simile a quella maschile, anzi leggermente migliore: la disoccupazione ufficiale «rosa» è aumentata del 5,2%, quella degli uomini del 6. Ma ben 58.000 donne in più si son messe alla ricerca di un lavoro, mentre 43.000 uomini hanno smesso di farlo (non necessariamente perché lo abbiano trovato, però).
Il dato giovanile, si diceva, è devastante: a novembre il tasso di disoccupazione specifico ha toccato il 30,1%, superando per la prima volta la soglia del 30. In questo caso, se si vanno a consultare le serie storiche, si scopre che il minimo nel tasso di disoccupazione era stato toccato all’inizio del 2007 (19,3), poi – con l’esplodere della crisi globale – non ha fatto altro che crescere. La spiegazione arriva guardando alle tipologie di contratto più utilizzate per assumere: cala infatti il lavoro autonomo, mentre cresce quello dipendente, ma quasi soltanto «a tempo determinato». Che significa? Che i contratti di lavoro «atipici», dal 1997 ad oggi, sono serviti a creare una fascia di lavoro precario usata scientemente per «compensare» senza discussioni e trattative sindacali le necessità di variazione occupazionale in sintonia con il ciclo economico. Si assume – senza «impegno a vita» – quando c’è ripresa, si mette per strada quando c’è un periodo di fiacca o crisi nera. Basta non rinnovare il contratto a termine.
La conferma viene dall’andamento dell’altro settore debole dell’occupazione: gli stranieri. Il loro tasso di occupazione (ovvero la percentuale di quanti lavorano in forme legali, registrate) è significativamente sceso dal 63,7 al 62,5% in un anno. E dire che il numero di quelli occupati è cresciuto in modo considerevole: +120.000. Anche in questo caso – come per i giovani – è presumibile un qualche slittamento sostanzioso verso il lavoro nero. Anche perché, guardando ai settori produttivi, l’«industria in senso stretto» ha mantenuto le posizioni occupazionali, l’edilizia è crollata drammaticamente (oltre -5%), mentre una qualche espansione c’è stata nel turistico-alberghiero-ristorazione. Non proprio il tempio del rispetto minuzioso delle regole (persino nelle località di lusso, come dimostra per altro verso la vicenda di Cortina d’Ampezzo).
Un dato apparentemente paradossale viene dall’occupazione a tempo indeterminato (+159.000 unità) nelle fascia di età «over 55». Nei numeri di novembre si registrano dunque già gli effetti della «riforma delle pensioni» targata Berlusconi-Sacconi, con ben 168.000 «maturi» che non sono potuti andare in pensione. Ai fautori dell’ideologia dell’allungamento dell’età lavorativa «per facilitare l’occupazione giovanile» facciamo modestamente notare che è lo stesso numero, quasi esatto, dei giovani «under 34» che non hanno più un lavoro. Se si blocca il normale turnover generazionale non può accadere altro. Non serve essere «professori» o Ichino per capirlo.
Una parola a parte va spesa per la condizione occupazionale delle giovani donne nel Mezzogiorno. Qui – anche tenendo conto che il «lavoro di cura familiare» o quello «nero» può essere, per ragioni locali, più esteso che altrove – il 39% non ha una occupazione ufficiale. Un dato che impedisce di pensare un futuro migliore se non tramite la più antica e dimenticata delle soluzioni: l’emigrazione.
Da questi numeri e dai relativi flussi, si comprende che la diatriba sull’art. 18 è puramente politica (eliminare le tutele che rendono il lavoratore capace di far valere diritti e contratti). Se si voleva aumentare l’occupazione giovanile bastava non aumentare l’età pensionabile. A meno di non voler licenziare i padri assumendo i figli a metà prezzo. Il sospetto, per la storia di questo paese, è del tutto legittimo.
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