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Rigore contabile, quindi recessione economica

Quasi a confermare la sua fosca analisi, parlando alla radio tedesca Ndr, il presidente dell’Eurogruppo Juncker ha dichiarato che la zona dell’euro è sull’orlo di una recessione la cui ampiezza potenziale resta sconosciuta. «Deve essere ancora determinata», ha detto. Nella stessa intervista, il presidente dell’Eurogruppo ha escluso che la Grecia possa uscire dall’euro. La Grecia «non sta contemplando il ritorno alla Dracma», ha affermato Juncker, secondo il quale il ritorno alla moneta greca «non è un’opzione».

 

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Troppo rigore uccide la ripresa

di Martin Wolf

Che cosa ha in serbo il 2012 per l’economia mondiale? Cominciamo dando un’occhiata ai malandati Paesi ad alto reddito. C’è qualche buona ragione per prevedere una ripresa solida? Nessuna. La crisi dell’eurozona potrebbe sfociare in un disastro che avrebbe ripercussioni sul mondo intero, e anche la ripresa Usa probabilmente sarà fragile. L’ombra di tutto quello che è successo prima del 2007 è lenta a dissolversi.

Le previsioni di dicembre sono molto negative. I dati più recenti sulle prospettive di crescita per l’anno appena iniziato sono molto più bassi di quello che ci si aspettava un anno fa, in particolare per l’eurozona, destinata, secondo le previsioni, a cadere in recessione: Italia e Spagna probabilmente vedranno contrarsi il Pil, mentre Francia e Germania dovrebbero registrare una crescita trascurabile; il Regno Unito si troverà nella stessa situazione dei due Paesi più importanti dell’area euro.

Solo il Giappone e gli Stati Uniti potranno sfoggiare qualcosa di vicino a una crescita economica ragionevole; nel caso degli Stati Uniti a dicembre era prevista una crescita del 2,1%, in rialzo rispetto all’1,9% di novembre.
Contestualizziamo questi dati: nel terzo trimestre del 2011 il Canada è stato l’unico dei Paesi del G-7 a poter vantare un livello di prodotto interno lordo nettamente superiore al tetto massimo raggiunto prima della crisi; l’economia americana e quella tedesca erano leggermente al di sopra dei massimi pre-crisi e la Francia lievemente al di sotto; il Regno Unito, il Giappone e l’Italia invece restano largamente al di sotto. Ripresa? Quale ripresa?

Eppure, il tasso di interesse più alto applicato dalle quattro banche centrali più importanti in questo momento è il misero 1% della Bce, e tutte e quattro hanno incrementato notevolmente il loro stato patrimoniale. Tra il 2006 e il 2013 il rapporto fra debito pubblico e Pil crescerà di 56 punti percentuali nel Regno Unito, 55 in Giappone, 48 negli Stati Uniti e 33 punti in Francia. Perché politiche tanto drastiche hanno prodotto risultati tanto modesti?

Su questo argomento infuriano dibattiti ideologici. Il modello teorico dominante sostiene che una crisi finanziaria non può verificarsi, e che anche se si verifica non ha alcuna importanza, a patto di non lasciar crollare l’offerta di moneta intesa in senso lato. Secondo questa lettura degli eventi, le economie attualmente sono frenate soltanto da rigidità strutturali e incertezze generate dalle misure politiche. A mio parere è una favola per bambini, basata su teorie che riducono il capitalismo a un’economia di baratto occultata da un sottile velo monetario.
Trovo assai più convincenti quelle teorie che accettano il fatto che le persone possano commettere grossi sbagli. La grande divisione è fra quelli – i seguaci della scuola austriaca – che ritengono che chi sbaglia sono i Governi e la soluzione consiste nel lasciare che tutto l’edificio finanziario venga giù, e quelli – i post-keynesiani – che sono del parere che un’economia moderna sia instabile di per sé e che lasciar crollare tutto quanto ci riporterebbe agli anni 30. Io sono decisamente dalla parte di questi ultimi.

Nel suo lungimirante capolavoro del 1986, “Governare la crisi: l’equilibrio in un’economia instabile”, Hyman Minsky esponeva la sua ipotesi dell’instabilità finanziaria. Janet Yellen, vicepresidente della Federal Reserve, ha osservato nel 2009 che «con il mondo finanziario in piena turbolenza, l’opera di Minsky è diventata una lettura obbligata».
L’aspetto più affascinante delle tesi minskyane è il fatto di collegare decisioni di investimento orientate su un futuro di per sé incerto ai patrimoni che finanziano tali decisioni, e dunque al sistema finanziario. Secondo la visione di Minsky, la leva finanziaria – e dunque la fragilità – è determinata dal ciclo economico. Un lungo periodo di tranquillità accrescerà la fragilità: la gente sottovaluterà i pericoli e sopravvaluterà le opportunità. Minsky avrebbe ammonito che la «grande moderazione» conteneva i semi della sua stessa distruzione.

Gli anni prima del 2007 sono stati teatro di un ciclo del credito privato fuori dall’ordinario, specialmente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Spagna, sostenuto dall’aumento dei prezzi delle case. Lo scoppio di queste bolle ha portato a un’esplosione, in gran parte automatica, dei deficit di bilancio, come Minsky aveva previsto. Questo è stato uno dei tre meccanismi politici che hanno impedito all’economia di precipitare in una grande depressione; gli altri due sono stati gli interventi finanziari e monetari. Le economie sono ancora alle prese con l’aggiustamento del dopo-crisi. Con tassi di interesse prossimi allo zero, i deficit di Stati sovrani affidabili sono utili da tre punti di vista: aiutano la domanda, aiutano la riduzione della leva finanziaria e aiutano ad accrescere la qualità delle attività private.

Quanta strada ha fatto il processo di “deleveraging”? In America parecchia: nel terzo trimestre del 2011 il rapporto tra debito lordo del settore finanziario e Pil era ai livelli del 2001 e il rapporto tra debito delle famiglie e Pil ai livelli del 2003. Inoltre, come fa notare la Goldman Sachs, «a nostro parere, il numero di permessi di costruzione di nuove case probabilmente ha già toccato il fondo, mentre i prezzi nominali delle case verosimilmente toccheranno il fondo nel corso del 2012». Gli Stati Uniti ormai sono avviati verso la ripresa, anche se sarà una ripresa limitata dal prematuro risanamento dei conti pubblici, dal deleveraging in corso, dai rischi provenienti dall’area euro e, forse, da un aumento del prezzo del petrolio. La ripresa si costruirà su un’economia che continua a essere sbilanciata.

Ma Eurolandia è ancora più fragile. L’Ocse prevede una riduzione del deficit ciclicamente aggiustato dell’eurozona dell’1,4% tra il 2011 e il 2012, contro appena lo 0,2% negli Stati Uniti. Ma il grande pericolo per le economie più deboli dell’eurozona viene dal simultaneo taglio delle spese nel settore pubblico e nel settore privato: è la ricetta ideale per una recessione grave e prolungata. Gli Stati sovrani inaffidabili sono intrappolati in sforzi probabilmente vani per risanare il bilancio statale in assenza di adeguate compensazioni da parte del settore privato e degli altri Paesi. Per questi Stati, una recessione in tutta l’eurozona è una calamità, che ostacolerà enormemente l’aggiustamento esterno di cui hanno bisogno. In questo contesto, l’offerta della Bce di finanziamenti triennali a buon mercato alle banche, che potrebbero prestare soldi a loro volta agli Stati in difficoltà, è poco più di un palliativo: ingegnoso, ma inadeguato.

I Paesi ad alto reddito hanno condotto una serie di esperimenti allettanti. Uno è stato la deregolamentazione del settore finanziario e la crescita trainata dal settore immobiliare, ed è fallito. Un altro è stato la risposta fortemente interventista alla crisi finanziaria del 2008, e ha funzionato, più o meno. Un altro ancora è la riduzione della leva finanziaria dopo la crisi e un ritorno a un contesto monetario e di bilancio più normale, e su questo esperimento il giudizio è ancora sospeso. Ma nell’eurozona la virata verso il rigore di bilancio corre fianco a fianco con un esperimento ancora più importante, la costruzione di un’unione monetaria intorno a un nocciolo duro strutturalmente mercantilista, fra Paesi con scarsa solidarietà reciproca dal punto di vista finanziario, sistemi bancari fragili, economie poco flessibili e gradi di competitività divergenti. Buona fortuna per il 2012. Ne avranno tutti bisogno.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

da Il Sole 24 Ore

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