L’esperienza suggerisce meno mercato
Duccio Valori *
Nonostante la differenza antropologica tra il Governo Monti e quello che lo ha preceduto (data la prevalenza nel nuovo governo di persone perbene e tecnicamente preparate, prevalenza non totalitaria, come dimostrano i casi Malinconico e Patroni Griffi – e speriamo non ce ne siano altri) resta in piedi una preoccupante continuità di filosofie e di obiettivi che non fa sperare in un vero cambiamento della situazione del Paese.
Come già avvenuto in passato, la speranza di sviluppo dell’economia italiana è riposta nelle privatizzazioni: dei trasporti, dei pubblici servizi, eventualmente della stessa distribuzione dell’acqua, nonostante – come faceva notare giustamente Corrado Oddi – l’esito nettamente contrario del referendum. Ma è proprio vero che le privatizzazioni gioverebbero alla popolazione in generale, e contribuirebbero in modo decisivo al rilancio dell’economia italiana? L’esperienza sembrerebbe dimostrare il contrario.
È vero che alcuni servizi pubblici funzionano malissimo: basti pensare ai trasporti pubblici a Roma o alla distribuzione dell’acqua in alcuni “Ato” del Sud. Questa però – ad avviso di chi scrive – appare un’ottima ragione per farli funzionare bene, e non certo per giustificare una privatizzazione che – oltre a non dare alcuna garanzia di miglioramento qualitativo – si tradurrebbe in un aumento delle tariffe, e quindi in un danno per l’utenza.
Queste affermazioni non sono apodittiche, ma si basano su esperienza concrete. Prima dell’ondata ideologica delle privatizzazioni, dovuta inizialmente a interessi ben diversi da quelli della collettività, esistevano in questo Paese tre banche Iri (le tre b.i.n., Credit, Comit e Banca di Roma) e la Bnl, tutte sotto il controllo pubblico. Dopo le privatizzazioni, le tre b.i.n. sono diventate rispettivamente Unicredit, Intesa San Paolo e Banca di Roma, tutte e tre privatizzate, e la Bnl è stata acquisita da Paribas, con il bel risultato di avere una Banca francese nell’azionariato della Banca d’Italia.
Ma non è tutto. La qualità del servizio offerto da queste banche ex-pubbliche si è allineata a quella dell’intero sistema bancario privato: il cartello bancario che si è venuto a creare, in assenza di una funzione calmieratrice dello Stato, è oggi , in termini di costi per i clienti, il più esoso d’Europa, e resiste ferocemente ad ogni tentativo pubblico di miglioramento.
Altre imprese ex-pubbliche privatizzate hanno ridotto pesantemente l’occupazione e/o peggiorato i servizi; quelle (poche) rimaste pubbliche, come la Rai, Fincantieri o Finmeccanica, sono gestite tanto male da fare propaganda alle privatizzazioni. Nel frattempo, ferma restando la pessima gestione privata delle grandi imprese (e sulla Fiat sarebbe da fare un discorso a parte) le piccole e medie imprese si delocalizzano, con il bel risultato di vendere i loro prodotti al prezzo di prima, di sottopagare i lavoratori cinesi, romeni o slavi, e di aumentare i profitti, con scarsissimi vantaggi per i consumatori italiani, il cui potere d’acquisto, tra disoccupazione e tagli alla spesa pubblica, diminuisce di giorno in giorno.
Sembra il caso di ripensare un modello di economia (non un modello di sviluppo, perché lo sviluppo si è fermato proprio quando sono cominciate le privatizzazioni) basato sull’assioma «meno Stato, più mercato» troppo privatistico, per adottarne un altro nel quale allo Stato sia restituito quel ruolo attivo che esso seppe svolgere in tutta Europa negli anni del dopoguerra, e che fa oggi della Cina il sistema produttivo più dinamico del mondo; dunque, «meno mercato, più Stato»; cosa che appare tanto più necessaria quanto più l’economia di mercato pura mostra le proprie contraddizioni.
* ex Direttore Centrale Iri
Nonostante la differenza antropologica tra il Governo Monti e quello che lo ha preceduto (data la prevalenza nel nuovo governo di persone perbene e tecnicamente preparate, prevalenza non totalitaria, come dimostrano i casi Malinconico e Patroni Griffi – e speriamo non ce ne siano altri) resta in piedi una preoccupante continuità di filosofie e di obiettivi che non fa sperare in un vero cambiamento della situazione del Paese.
Come già avvenuto in passato, la speranza di sviluppo dell’economia italiana è riposta nelle privatizzazioni: dei trasporti, dei pubblici servizi, eventualmente della stessa distribuzione dell’acqua, nonostante – come faceva notare giustamente Corrado Oddi – l’esito nettamente contrario del referendum. Ma è proprio vero che le privatizzazioni gioverebbero alla popolazione in generale, e contribuirebbero in modo decisivo al rilancio dell’economia italiana? L’esperienza sembrerebbe dimostrare il contrario.
È vero che alcuni servizi pubblici funzionano malissimo: basti pensare ai trasporti pubblici a Roma o alla distribuzione dell’acqua in alcuni “Ato” del Sud. Questa però – ad avviso di chi scrive – appare un’ottima ragione per farli funzionare bene, e non certo per giustificare una privatizzazione che – oltre a non dare alcuna garanzia di miglioramento qualitativo – si tradurrebbe in un aumento delle tariffe, e quindi in un danno per l’utenza.
Queste affermazioni non sono apodittiche, ma si basano su esperienza concrete. Prima dell’ondata ideologica delle privatizzazioni, dovuta inizialmente a interessi ben diversi da quelli della collettività, esistevano in questo Paese tre banche Iri (le tre b.i.n., Credit, Comit e Banca di Roma) e la Bnl, tutte sotto il controllo pubblico. Dopo le privatizzazioni, le tre b.i.n. sono diventate rispettivamente Unicredit, Intesa San Paolo e Banca di Roma, tutte e tre privatizzate, e la Bnl è stata acquisita da Paribas, con il bel risultato di avere una Banca francese nell’azionariato della Banca d’Italia.
Ma non è tutto. La qualità del servizio offerto da queste banche ex-pubbliche si è allineata a quella dell’intero sistema bancario privato: il cartello bancario che si è venuto a creare, in assenza di una funzione calmieratrice dello Stato, è oggi , in termini di costi per i clienti, il più esoso d’Europa, e resiste ferocemente ad ogni tentativo pubblico di miglioramento.
Altre imprese ex-pubbliche privatizzate hanno ridotto pesantemente l’occupazione e/o peggiorato i servizi; quelle (poche) rimaste pubbliche, come la Rai, Fincantieri o Finmeccanica, sono gestite tanto male da fare propaganda alle privatizzazioni. Nel frattempo, ferma restando la pessima gestione privata delle grandi imprese (e sulla Fiat sarebbe da fare un discorso a parte) le piccole e medie imprese si delocalizzano, con il bel risultato di vendere i loro prodotti al prezzo di prima, di sottopagare i lavoratori cinesi, romeni o slavi, e di aumentare i profitti, con scarsissimi vantaggi per i consumatori italiani, il cui potere d’acquisto, tra disoccupazione e tagli alla spesa pubblica, diminuisce di giorno in giorno.
Sembra il caso di ripensare un modello di economia (non un modello di sviluppo, perché lo sviluppo si è fermato proprio quando sono cominciate le privatizzazioni) basato sull’assioma «meno Stato, più mercato» troppo privatistico, per adottarne un altro nel quale allo Stato sia restituito quel ruolo attivo che esso seppe svolgere in tutta Europa negli anni del dopoguerra, e che fa oggi della Cina il sistema produttivo più dinamico del mondo; dunque, «meno mercato, più Stato»; cosa che appare tanto più necessaria quanto più l’economia di mercato pura mostra le proprie contraddizioni.
* ex Direttore Centrale Iri
da “il manifestp”
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