La Banca d’Italia lancia un allarme in forma di analisi. Le accade spesso, è il suo ruolo istituzionale, il lato migliore. In sintesi: l’occupazione si va polarizzando, nel senso che aumentano le occasioni di lavoro solo per le figure manageriali e per quelle a bassa qualifica. Il “ceto medio” si impoverisce, sia in termini salariali (qui non crescono più da anni) che in termini numerici, con pochi che riescono a “salire” nella scala sociale e moltissimi che invece sono costretti a scendere.
Nel nostro linguaggio, non si tratta di una novità: dagli anni ’60 parliamo (certo non solo noi) di “proletarizzazione dei ceti medi”. Un fenomeno negato per decenni, con tutti i trucchi della retorica (anche gli operai vennero iscritti di forza nel “ceto medio”) e della finanza creativa (favorendo l’indebitamento di massa là dove il salrio non bastava per assumere uno stile di vita corrispondente alla figura sociologica).
Ma è importante – diremmo decidivo – che vi sia oggi una conferma scientifica anche da parte di un’istituzione autorevole come la Banca d’Italia.
Le conseguenze, in termini sindacali e politici, sono numerose, e non possiamo certo esaurirle in poche righe qui. La prima è che la “coesione sociale” – spesso ricordata da Napolitano e Monti, a quanto pare solo per prendere meglio la mira e abbatterla – sta subendo una torsione violenta, cui il potere sembra disporsi a rispondere soltanto con la forza repressiva, visto che la riduzione violenta della spesa pubblica “sociale” brucia le possibilità di mediazione. La seconda, più costruttiva, è che l’assoluta maggioranza della popolazione si sta venendo a trovare nella “parte bassa” della clessidra sociale, al punto che la stessa immagine ne esce deformata: non più “clessidra”, ma “fiasco”.
Per la rappresentanza sindacale questo pone problemi “nuovi” solo per chi non conosce la storia del movimento operaio. Proprio la “cetomedizzazione”, infatti, aveva messo la sordina (nell’ultimo quarto del secolo scorso) al conflitto sociale. Oggi la situazione si rovescia. Ma in condizioni particolarmente difficili per ogni “rappresentanza” – sia sindacale che politica – dei settori sociali in difficoltà.
Intanto, proponiamo qui i materiali per assumere le informazioni più dettagliate.
Lo studio completo:
L’articolo di Repubblica che sintetizza lo studio.
Meno lavoro per i ceti medi. Ignorati impiegati e insegnanti si cercano solo qualifiche alte
Valentina Conte
Bankitalia: così è cambiata l’offerta di posti dal ’93
Meno insegnanti e impiegati, più dirigenti e professionisti. Meno colletti bianchi e tute blu, più ingegneri e imprenditori. Il mercato del lavoro cambia pelle e in quindici anni travolge soprattutto le qualifiche intermedie a favore delle professioni intellettuali. È la rivincita della laurea, ma anche l’ultimo colpo al ceto medio, sempre più svuotato e impoverito. Con una sorpresa. Avanza, nel periodo più recente, anche l’occupazione a bassa qualifica. Il segno evidente di un’evoluzione ad “U” del mercato italiano, del tutto simile a quanto sperimentato dagli Stati Uniti negli anni ’90. Si impennano working poors e top manager. In mezzo, crollano travet e operai.
UPGRADING E POLARIZZAZIONE
Per descrivere l’Italia che lavora, la Banca d’Italia – nel recente studio di Elisabetta Olivieri, “Il cambiamento delle opportunità lavorative” – utilizza due termini: “upgrading” e polarizzazione. E li mette in relazione a due fasi della storia più recente. La prima, tra il 1993 e il 2000, segnata da un netto calo di tutte le professioni a bassa e media qualifica, a favore di quella alta. Un classico esempio di “upgrading”, di aggiornamento e miglioramento di opportunità e qualifiche, che ha caratterizzato tuttii paesi europei. Il secondo periodo, dal 2000 al 2009, più vicino all’esperienza americana: rimane alta la quota delle professioni “intellettuali”, ma cresce anche quella dei lavori poco specializzati e dunque il mercato si “polarizza” agli estremi, a danno delle qualifiche intermedie.
INFORMATIZZAZIONE E IMMIGRATI
Cosa spiega la doppia fase? Sicuramente un cambiamento nella domanda di lavoro più che nell’offerta. Non sono i laureati in più a modificare lo scenario, ma le nuove tecnologie (soprattutto l’informatica) e la delocalizzazione all’estero delle mansioni di routine del processo produttivo a facilitare il passaggio all’automazione e a svuotare il settore di mezzo, quello a media retribuzione di operai e impiegati d’ufficio, compensati da più manager e specialisti. Lo dimostra la curva dei salari, anch’essa polarizzata: cresce per le professioni al top, ma anche per quelle più basse, soprattutto nell’ultimo decennio, alimentate dall’enorme bacino (a basso costo) degli immigrati regolarizzati (e di quelli al nero).
I RISCHI
«La polarizzazione delle opportunità lavorative può tradursi in un aumento di working poors e portare a un indebolimento del ceto medio», osserva la ricercatrice di Bankitalia. «Tali dinamiche occupazionali hanno effetti in termini di disuguaglianza salariale». Ovvero, se diminuiscono i posti a disposizione del ceto medio (un calo di occupazione, non di importanza, sottolinea lo studio), la forchetta tra ricchi e poveri tende a dilatarsi ancora di più.
GIOVANI E DONNE
A pagare sono ancora i giovani, e in tutti i settori: espulsi dalla fascia di occupazioni “intermedie” (ma anche basse), non ancora esperti o con i titoli giusti per rientrare in quelle “intellettuali”, riservate agli over 35. Vincono gli uomini sulle donne (la loro quota nelle professioni qualificate avanza di 5 punti, ben superiore a quella “rosa”)e il Centro-Nord (le mansioni medie crollano di 9 punti), dove il mercato è più dinamico, specializzato, sensibile ai cambiamenti della tecnologia e della domanda globale.
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