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Moody’s degrada l’Italia di “due scalini”

Moody’s ha deciso di tagliare di ben due scalini il rating sui titoli di Stato italiani, portandoli a Baa2 da A3, mantenendo un outlook (previsione) negativo.

È probabile, secondo l’agenzia, che l’Italia sperimenterà un ulteriore netto incremento dei costi di finanziamento del debito, ovvero degli interessi da pagare. Le cause sarebbero da cercare nell’aumento della fragilità della fiducia nel mercato, il riscio contagio da Grecia e Spagna e i segni di un’erosione degli investimenti stranieri.

Ma «anche il clima politico, specialmente con l’avvicinarsi del voto della prossima primavera, è fonte di un aumento dei rischi»- L’agenzia spiega che il taglio del rating dei bond italiani è dovuto anche a un deterioramento della situazione dell’economia, nonostante le misure e le riforme positive decise dal governo.

Il peggioramento dell’economia, poi, col Paese in recessione, “aumenta il peso dell’austerity e delle riforme sulla popolazione italiana”. Questo porta le forze politiche a frenare, in qualche modo, l’azione del governo. Quest’ultimo – riconosce Moody’s – ha messo in campo “un programma di riforme che ha davvero le potenzialità per migliorare notevolmente la crescita e le prospettive di bilancio”. Nonostante ciò la recessione incombe e raggiungere gli obiettivi di risanamento dei conti resta una enorme sfida, con il pareggio di bilancio – si sottolinea –  slittato di due anni. Forse gli analisti di Moody’s pensavano al ‘percorso di guerra’ citato ieri dallo stesso Monti.

 

Il governo si è fatto saltare la mosca al naso, già in mattinata. E il quotidiano di Confindustria ha pensato bene di far scrivere un pezzo “vendicativo”, che fornisce però informazioni importanti sulle agenzie di rating. E chi le manovra. Ah, le contraddizioni in seno al capitale, quanto sono importanti….

 

S&P’s, Moody’s e Fitch: come decidono (e chi c’è dietro) le nuove superpotenze

 

Come la guerra del futuro sarà fatta da droni, telecamere infrarosse e virus telematici, così la sfida economica del domani si gioca sul piano della credibilità e del rating dei suoi titoli pubblici.
Un voto negativo, un declassamento e i bond di uno Stato sono carta straccia, junk bond, e i suoi cittadini costretti a manovre di austerità, duri sacrifici mentre l’immagine nazionale cade nella polvere.

Ecco spiegata la potenza delle tre agenzie di rating, tutte sostanzialmente anglosassoni sebbene Fitch fosse nata da capitali francesi; società private senza eserciti, una confraternita elitaria di appena tremila persone, ma capaci di mettere al tappeto persino gli Stati Uniti d’America.
Questa nuova potenza mondiale sono le agenzia di rating, aziende private che valutano il grado di rischio rappresentato dall’investire in un’azione, in una moneta, in un bond privato o in un’obbligazione del debito pubblico. La tripla A, il voto massimo, è entrato nel linguaggio comune: «Questo piatto è da tripla A», si sente dire comunemente al ristorante rivolgendosi allo chef.

La lettera D sta invece per default e junk bond per titoli spazzatura. I Paesi emergenti cercano di ottenere lo status di investment grade non senza difficoltà. In sostanza il sistema di votazione è una scala inversamente proporzionale al rischio: più basso è il rating, più alto il rischio e quindi più elevata deve essere la remunerazione del capitale (il rendimento che l’investitore chiede per comprare il titolo). Apparentemente è un servizio importante fornito al risparmitore, in realtà nel tempo è diventato un meccanismo poco trasparente e monopolizzato da tre grandi società che si accaparrano il 90% del mercato.

Gli gnomi di S&P’s. Fondata nel 1860 Standard & Poor’s ha uffici megagalattici a Wall Street, Canaray Warf a Londra, nella Main Tower a Francoforte o in Rue de Courcelles a Parigi. S&P’S sceglie la discrezione e preferisce nascondersi dietro il nome di McGraw-Hill, la sua casa madre americana specializzata in libri economici e scolastici. Il settore del rating è uno dei più segreti e sconosciuti al mondo, un’industria dei servizi finanziari che obbliga le società a passare sotto le forche caudine per ottenere a caro prezzo il tanto agognato voto che gli apre le porte dei mercati.

Le tre grandi del settore hanno ottenuto dei profitti considerevoli negli ultimi tempi, che si sono spinti fino al 50% del loro giro d’affari (1,3 miliardi di euro per S&P’s nel 2010). Una miniera d’oro che non ha eguali in altri settori ad esclusione forse di quello della tecnologia d’avanguardia e del lusso.

Ogni Paese delle società di rating ha dei responsabili (suddivisi per Paese) che a differenza di quanto si possa pensare non sono affatto super pagati: un analista junior a S&P’s guadagna circa 45mila euro all’anno mentre un senior con 5 anni di anzianità porta a casa dai 75mila ai 100mila euro all’anno. Poi ci sono i bonus di fine anno ma niente di più. Insomma una vita agiata ma senza eccessi.

Moritz Kramer da Francoforte e Marko Mrsnik da Parigi sono i due uomini di S&P’s dedicati a controllare il voto della tripla A alla Francia che oggi vacilla. Il primo si occupa della Germania, e in subordine della Francia, il secondo viceversa. Un buon tandem che è stato messo a dura prova il 10 novembre scorso per un grave infortunio: la società di rating americana ha inviato a più clienti un downgrading del rating della Francia poi rivelatesi un errore informatico. Uno scherzo durato un paio d’ore che non è affatto piaciuto a Parigi e a Bercy, la sede del ministero delle Finanze francese, che hanno chiesto è ottenuto le scuse formali di Douglas Peterson, il capo supremo della società che ha preso il posto dell’indiano, Deven Sharma, l’ex numero uno che si è dimesso subito dopo il clamoroso dowgrading degli Stati Uniti.

Le critiche all’operato delle società di rating. Un mossa molto controversa quella operata a freddo contro gli Stati Uniti. Quando il 5 agosto S&P’s ha declassato il debito statunitense dalla tripla A a AA+, con affemazioni politicamente molto orientate alle critiche del Tea Party, i mercati hanno reagito in modo del tutto opposto facendo abbassare i tassi dei Tresury bills invece che farli balzare come ci si sarebbe aspettato. Uno smacco senza precedenti per una società di rating che nei fatti ha costretto alle dimissioni l’ex presidente di S&P’s Sharma.

Ma le critiche più serrate, oltre a quelle gauchiste di essere troppe vicine ai desiderata del Tesoro statunitense nel corso delle varie crisi (la Tequila crisis del 1994 o l’asiatica del 1997 o quella dei PIIGS 2009), sono arrivate dopo alcuni incidenti proprio sul mercato che hanno incrinato la credibilità delle società.

Le accuse più dure sono arrivate nell’incapacità di avvertire per tempo i disastri globali legati alla bolla immobiliare Usa, dando voti di tutto rispetto ai famosi pacchetti finanziari in cui erano insaccati i mutui subprime e derivati vari, ma anche alla banca d’investimento Lehman Brothers, al top dei voti fino a poco prima che fallisse clamorosamente domenica 15 settembre 2008. Tutti infortuni che hanno contribuito a innescare, invece di evitare, la grande recessione del 2008 che è costata finora ben 7.700 miliardi di dollari di finanziamenti della Federal Reserve allo 0,1% di interesse alle grandi banche americane, secondo quanto ricostruito da Bloomberg. Altro che programma Tarp da appena 700 miliardi di dollari!

Il conflitto di interesse. Le agenzie di rating nascono per dare il voto alle società migliori e guidare i risparmiatori in modo equanime nella giungla delle informazioni non sempre accessibili. Anzi dovrebbero servire a rompere quella diseguaglianza nell’accesso delle informazioni che privilegiano alcuni operatori rispetto ad altri. Ma Moody’s e S&P’s hanno al loro interno dei conflitti di interesse perché sono proprietà di fondi d’investimento. Il maggior azionista di Moody’s, con il 17%, è il fondo Berkshire Hathaway, di proprietà del famoso miliardario vicino al presidente Barack Obama, Warren Buffett, icona del capitalismo filantropico americano assieme a Bill Gates.

Il secondo azionista di riferimento di Moody’s è il fondo Capital World Investors di Los Angeles della famiglia Lovelace, con il 12% delle azioni. Insomma soci importanti e molto attivi nei settori che sono sotto osservazione delle società di rating stesse. Va però ricordato che le società si difendono ricordando che ci sono delle “muraglie cinesi” al loro interno che dividono il settore commerciale da quello degli analisti che scrivono le famose notes in tutta indipendenza.

Capital World Investors però è anche il maggiore azionista, con il 12% nella McGraw Hill che, come abbiamo detto prima, controlla Standard & Poor’s: cioè ha interessi in entrambe le due maggiori agenzie di rating del mondo. Niente da ridire se non che sia Berkshire Hathaway, sia Capital World Investors hanno nei loro businness anche settori dove le loro agenzie operano.

Insomma non ha tutti i torti Michel Barnier, il commissario europeo incaricato dei mercati finanziari, a proporre il 15 novembre 2011 un progetto di regolamentazione che prevede la sospensione del rating per i Paesi sotto assistenza finanziaria, l’allungamento da 12 a 24 ore del periodo di avviso ai Paesi che sono stati degradati, la possibilità di fare causa per responsabilità civile alle agenzie per comportamenti scorretti e la rotazione ogni tre anni dei clienti per favorire la concorrenza nel settore.

I passi falsi. Oltre al dowgrading degli Usa con un errore di 2mila miliardi di dollari nelle stime di riduzione del debito Usa contestato dall’ammnistrazione Obama o ai rating di banche come Lehamn Brother che erano ai massimi poco prima di fallire o a pacchetti finanziari tutti a tripla A con dentro i mutui subprime, va ricordato il buon rating tripla A di Enron da parte di tutte e tre le big (poi fallita nel 2001) o il maramaldesco downgrading della nuova Tunisia democratica il giorno dopo la cacciata di Ben Alì fatta da S%P’s e Fitch, un episodio grave come ricordato da una pregevole analisi da Odile Benyahia-Kouder.

Il caso greco. Un’inchiesta del New Yor Times ha messo in luce l’estrema cautela di Moody’s nel decidere il dowgrading del debito di Atene che da tempo mostrava segni inquietanti. Ai primi dicembre 2009 un report di Moody’s scriveva ancora che i «timori degli investitori sulla Grecia era malposti». Venti giorno dopo l’agenzia americana operava il downgrading arrivando addirittura dopo un articolo del Sole 24 ore che il 20 novembre 2009 in prima pagina («Troppi debiti, trema la Grecia») metteva in allerta i lettori sul rischio sovrano greco. Un allarme più tempestivo da parte di un agenzia specializzata avrebbe potuto ridurre il flusso di soldi degli investitori verso la Grecia che oggi ha un debito di 357 miliardi di euro (pari a 30mila euro pro capite) ed evitare il super haircut del 50% deciso il 26 ottobre a Bruxelles dai capi di Stato e di Governo della Ue e che oggi costerà 100 miliardi di euro di perdite secche nei bilanci della maggiori banche del mondo raccolte nell’IIF guidata da Charles Dallara.

Sulla Grecia Moody’s si è difesa dicendo che la sua estrema prudenza è stata determinata dalla convinzione che l’ingresso di Atene nella zona euro avrebbe evitato per sempre qualsiasi ipotesi di bancarotta. Non è andata esattamente così ma intanto è emerso che come detto da Spyros Papanicolaou, direttore generale della Agenzia per debito pubblico greco dal 2005 al febbraio 2010, Moody’s (come le altre società) è stata ricompensata con cifre varianti da 330mila a 540 mila dollari ogni anno per dare il rating al debito pubblico ellenico.

Ora tocca all’europa. Dopo aver preso a schiaffi l’amministrazione Obama togliendo la tripla A al debito americano, peraltro molto superiore al 100% del Pil come ufficialmente ci si ostina a dichiarare a Washington, è scattata la volta dell’Europa, unendo così in un unico tragico destino le due sponde dell’Atlantico.

L’allarme del premier Papandreou. Che le agenzie siano venute meno ai loro compiti di oracoli è ormai un sospetto molto diffuso. L’ex primo ministro greco George Papandreou il 4 dicembre ha detto che «gli enti regolatori dell’Unione europea e le agenzie di rating hanno qualche colpa per la crisi del debito del mio Paese». Papandreou, che si è dimesso il mese scorso, in un’intervista alla Cnn da Fareed Zakaria ha detto che «se ci fosse stato un monitoraggio più forte da parte dell’Unione europea, e delle agenzie di rating, non avrei come primo ministro ereditato una situazione in cui il deficit era vicino al 16 per cento e il debito era quasi raddoppiato durante il Governo precedente».

Eurobond. Un altro episodio che ha fatto molto discutere è stato il seguente: Standard & Poor’s il 3 settembre 2011 ha affondato gli Eurobond prima ancora che venissero alla luce. Un’intervento a freddo e per di più a gamba tesa che ha dato fiato a tutti coloro che pensano vi sia da tempo una volontà da parte delle agenzie di rating di esasperare le tensioni dei mercati.

S&P’s darebbe per gli eurobond un voto basato sulla più bassa valutazione del credito tra quella dei paesi partecipanti. «Se c’è un Eurobond garantito per il 27% dalla Germania, per il 20% dalla Francia e per il 2% dalla Grecia, il rating sarebbe CC, che riflette il rating sul credito della Grecia», ha sottolineato Moritz Kraemer, responsabile S&P di Europa, Medio Oriente e Africa, in una conferenza in Austria, riportata dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Se così fosse l’agenzia di rating americana avrebbe metaforicamente “bucato” le gomme all’autopompa sovranazionale degli euro-pompieri (gli eurobond) risorsa ultima che potrebbe spegnere l’incendio dei debiti sovrani Ue. Kraemer non ha smetito né è stato allontanato, e il rendimento dei titoli di Stato a due anni greci sono andati in quell’occasione per la prima volta sopra al loro prezzo. Il rendimento è aumentato di 298 punti base al 50,19%, mentre il prezzo è sceso al 49,82% del valore nominale. Potenza delle agenzie di rating.

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