Dicono spesso che i marxisti sono delle Cassandre, dei “catastrofisti” per pura invidia delle grandi capacità vitali del capitalismo. Ecco invece un’analisi del Financial Times che ditrugge qualsiasi speranza di uscire dalla crisi “tagliando”.
Forse è inutile segnalarla a Mario Monti o Elsa Fornero. Ma è utilissima per noi. I meccanismi “tecnici” sono individuati con grande precisione, come si conviene ad un analista serio. Di particolare interesse teorico, inoltre, la sottolineatura di un “effetto moltiplicatore” come quello keynesiano, ma che in questa crisi – tagliando – si manifesta all’incontrario. Ovvero come accelerazione della deflazione e della crisi.
La crisi del debito attuale è solo ununa fase di riscaldamento
Jamil Baz
A volte è possibile credere che la sofferenza è utile, un modo di pagare per i peccati passati. In questa luce, l’età di austerità in cui noi viviamo ha presumibilmente una sorta di qualità redentrice. Stringere i denti e si esce dall’altra parte, purificati e pronti per la robusta ripresa economica.
Tuttavia, dopo cinque anni, siamo in una situazione peggiore di quando abbiamo iniziato. Si poteva pensare che il recente deleveraging avrebbe spinto i ratio del debito verso il collasso. Eppure, dopo il maelstrom finanziario degli ultimi cinque anni, nelle 11 economie più sottoposte alla lente del mercato, il debito si è gonfiato a dismisura fino ad una media ponderata del 417% del prodotto interno lordo dal 381% del giugno 2007.
Sorprendentemente, in Canada, Germania, Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Giappone, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti, il rapporto tra debito totale (pubblico e privato) e prodotto interno lordo è ora maggiore di quanto non fosse in 2007.
Ci sono variazioni, ed è notevole che il debito negli Stati Uniti sia aumentato il minimo, dal 332% del PIL, cinque anni fa, al 340% di oggi – anche se non ci si dovrebbe consolare troppo con questo dato, in quanto le statistiche non includono diritti sociali come Medicare e Social Security. Se aggiungiamo queste voci fuori bilancio voci i rapporti appaiono molto peggiori.
La riduzione della leva finanziaria si sta rivelando impossibile da realizzare. Il mondo sta ancora barcollando sotto una montagna di debiti. Sulla base di questa analisi, possiamo fare cinque previsioni.
In primo luogo, così come la riduzione della leva finanziaria non è ancora iniziata, non è iniziata neanche la crisi dell’economia mondiale. Tutta la spiacevole percezione di questi ultimi anni è solo una fase di riscaldamento della crisi più grande che deve ancora venire. La necessità di abbassare i livelli del debito è sempre particolarmente pronunciata nella zona euro, soprattutto nell’Europa meridionale, ma anche negli Stati Uniti e Giappone.
In secondo luogo, ci vorrà un minimo di 15 anni o giù di lì perché l’economia raggiunga la velocità di fuga e un livello coerente con scenari di crescita sani. Questo perché i livelli di debito devono scendere almeno del 150% del PIL nella maggior parte dei paesi. La storia suggerisce che non è possibile ridurre il debito di oltre 10 punti percentuali l’anno, senza scatenare grande destabilizzazione sociale e politica.
In terzo luogo, quando cominceremo finalmente a tagliare il nostro debito, l’impatto economico sarà enorme. Paesi come il Giappone e gli Stati Uniti devono aumentare il loro saldo primario di oltre 10 punti di PIL, al fine di stabilizzare il rapporto tra debito pubblico e PIL ai livelli del 2007: considerando gli effetti di retroazione negativa tra tagli e deficit di crescita, ciascuno rischia di perdere oltre il 20% del PIL rispetto al trend.
E questo senza tener conto della necessaria riduzione della leva finanziaria privata. Il livello esatto di devastazione economica è una funzione del cosiddetto moltiplicatore, che misura l’impatto della riduzione della spesa sulla crescita economica. Il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che, nelle circostanze attuali, il moltiplicatore può essere due: ogni dollaro tagliato dal deficit porterà ad una riduzione due dollari del PIL. Il moltiplicatore è maggiore di quasi quattro volte a quello esistente nelle condizioni pre-2008.
In quarto luogo, le attività rischiose sono impostate per funzionare male per un lungo periodo. La redditività aziendale è altamente correlata con i cambiamenti nella leva finanziaria: riducete il debito a livelli significativi e la redditività cadrà. Il premio di rischio azionario su indici come lo S&P 500 è a livelli storicamente bassi e ha bisogno di aumentare drammaticamente, al fine di compensare gli investitori per i rischi di mercato diversi, che vanno dal default sovrano all’inflazione, dalla deflazione alla geopolitica.
Il quinto punto è che non esiste una bacchetta magica. In passato, i responsabili politici avevano vari strumenti per attutire l’impatto delle misure prese per stabilizzare i livelli di debito: si potevano tagliare i tassi d’interesse, per esempio, o consentire ai tassi di cambio di cadere, con conseguente ripresa determinata dalle esportazioni. Ma in un’era di tassi di interesse bassi o zero, con la maggior parte dei paesi che gareggiano nello svalutare le loro monete, tali strumenti politici hanno perso efficacia, e quindi il moltiplicatore è alto.
Anche l’inflazione, a lungo propagandata come soluzione di riserva per la riduzione del debito, non aiutererebbe. Farebbe schizzare verso l’alto i rendimenti, aggravando i costi del servizio del debito e uccidendo qualsiasi ipotesi di recupero. E i titoli fuori bilancio, la voce più grande che avrebbe bisogno di esser tagliata, sono al netto dell’inflazione.
Che fine farebbero gli asset migliori, se questo scenario viene fuori? Le obbligazioni di governi e imprese solvibili dovrebbero far bene in un contesto deflazionistico, in cui i tassi vengono tenuti bassi per un periodo prolungato; le scorte dovrebbero tornare di nuovo sui minimi, e le valute di elevata leva finanziaria dovrebbe essere vendute su mercati sensibili alla crescita.
Nelle parole di un vecchio adagio austriaco, la situazione è disperata ma non seria. Non è grave, perché i politici semplicemente non riescono a riconoscere l’elefante nella stanza, e cioè la leva finanziaria, e introducono invece una serie di espedienti. E’ senza speranza, perché la virtù rischia di non essere premiata per una generazione.Jamil Baz è Chief Investment Strategist presso GLG Partners, parte del Man Group
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Matteo
L’articolo è molto interessante, ma poco divulgativo. Avreste potuto forse fare un piccolo commentario spiegando i 5 scenari proposti da chi scrive. E poi, scusate se mi permetto, ma la traduzione andrebbe fatta rispettando le regole dell’italiano: ho trovato due congiuntivi errati e una mancata concordanza di forme verbali…!
giancarlo staffo
in compenso Landini si vanta di non aver mai letto Marx.
Maurizio Landini leader della Fiom, elevato ad icona mitica di una certa “sinistra”, in un intervista rilasciata a Vittorio Zincone per il “Corsera”(supl.sette del 13 luglio 2012), alla domanda “E’ vero che non ha mai letto Marx?” risponde candidamente : “verissimo” , con ostentata supponenza. Non resta che commentare , “evviva l’ignoranza”!… e si vede….
In questo caso è logico se la fiom perde e Marchionne vince e Landini non riesca neanche capire il perchè.