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Il tunnel dopo la luce

Una raffica di dati in una sola giornata conferma che la recessione globale è ancora qui. E anche la Cina, che pure continua a correre a velocità impensabile per le ormai sature economie Usa e Ue, sta rallentando in modo vistoso. E non poteva essere altrimenti, con un modello economico che ha ancora come motore fondamentale le esportazioni.

Il tunnel dopo la luce Cina, Usa e Ue frenano

Francesco PiccioniDall’angolo visuale dei mercati «la luce in fondo al tunnel» è un miraggio. Checché ne dica Moody’s e i ministri del governo italiano«. Al massimo si spera in una nuova «iniezione di liquidità» da parte della Federal Reserve, nella riunione del 12-13 settembre a Jackson Hole.
L’Europa continua ad essere il grande malato, ma a dominare il sentiment nella giornata di ieri sono stati tre dati negativi riguardanti le tre aree centrali dell’economia planetaria. Quello che ha convinto le borse a imboccare la via della «fuga dal rischio» è stata l’ultimo in ordine di tempo, anche se forse non il più grave: le richieste settimanale di sussidio di disoccupazione, nell’ultima settimana, sono aumentate di 4.000 unità (372.000) rispetto alla precedente. Un numeretto che assume un significato macro importante: l’economia Usa, che pure viaggia sopra l’1%, non crea nuovi posti di lavoro, nonostante i 7.700 miliardi di dollari – il 50% del Pil annuale – messi a disposizione dal governo Usa tra il 2008 e oggi.
È stato il colpo finale dopo la ferale notizia che in agosto la Cina, per il settimo mese consecutivo, ha registrato un rallentamento dell’attività manifatturiera, a causa degli ordinativi in caduta libera per i settori export oriented, in primo luogo verso gli Stati uniti. Naturalmente, quando si parla di Cina, bisogna prendere le parole con le molle: parlare di «rallentamento» per un’economia che è cresciuta del 7,6% nel secondo trimestre può sembrare folle. Ma è la peggiore performance registrata dal crack di Lehmann Brothers, tra la fine del 2008 e l’anno successivo. La banca centrale cinese ha già provveduto ad avviare alcune operazioni di «stimolo», iniettando liquidità nel sistema, ma è chiaro che la ancora forte dipendenza dalle esportazioni non può non produrre i suoi effetti quando questa crolla.
La seconda pessima nuova, altrettanto «sistemica» nei suoi effetti, è arrivata dal Vecchio Continente. Non si tratta però dello spettacolo indecoroso offerto da una leadership finanziariamente forte quanto politicamente miope (i vertici tedeschi), ma dei duri numeri dell’«economia reale». L’istituto Markit ha reso noto che l’indice Pmi dell’eurozona, in agosto, è rimasto stazionario (a 46,6 punti) sotto la fatidica «soglia 50» che separa le prospettive di crescita da quelle di recessione. Tradotto in termini di Pil, significa che nel terzo trimestre ci si dovrà attendere ancora un calo dello 0,5-0,6% nei 17 paesi che usano l’euro. Recessione, insomma.
Ma il dato nuovo è che anche per la Germania – quantomeno nei servizi – l’indice ha fatto registrare una «contrazione inaspettata» (da 50,3 a 48,3 punti); mentre il manifatturiero è rimasto a 45,1 per il sesto mese consecutivo. Si tratta, ripetiamo, di un indice «anticipa» le tendenze analizzando gli ordinativi. Il Pil tedesco nel secondo trimestre 2012, infatti, è stato ancora positivo dello 0,3%, confermando un +1% annuo. Qualcosa di positivo, per la Germania, fortunatamente c’è: il bilancio dello stato ha segnato un surplus di 8,3 miliardi nel primo trimestre «grazie all’elevato attivo del sistema pubblico di protezione sociale» (il generoso welfare tedesco riesce a fare anche questo…). Mentre non è stato quantificato il risparmio ottenuto dai massimi rendimenti che Berlino paga per gli interessi sul debito pubblico, grazie allo spread enorme con tutti i titoli di stato dei partner nell’euro.
Le borse, si diceva, hanno perso tutte terreno: Milano è scesa dell’1,37%, Francoforte di un punto, Wall Street altrettanto (a due ore dalla chiusura).Ma il punto più interessante viene dagli hedge fund, i fondi di investimento altamente speculativi che fanno spesso il bello e cattivo tempo sui mercati. Spiega la Cnn che «stanno scommettendo sul disastro». In pratica, stanno rastrellando liquidità, non investono quasi nulla e attendono. Cosa? Che la crisi del debito europea, oppure lo« shock fiscale» che Obama potrebbe decidere innalzando le tasse ai ricchi, oppure una brusca frenata cinese consegnino loro ghiotte possibilità di shopping. Hanno accumulato grandi quantità di munizioni. Le useranno.

Lo stato confusionale tedesco
Vincenzo Comito
Che sta succedendo alla Germania? L’inaugurazione del nuovo aeroporto di Berlino, fissata per l’inizio di giugno, è stata all’ultimo momento spostata al marzo 2013, e ora si parla di un nuovo rinvio. Stato federale, regione del Brandeburgo e comune di Berlino litigano su chi debba farsi carico degli extra-costi, forse 1,3 miliardi di euro in più rispetto ai preventivi. Segni di confusione, in un paese da cui non ce li aspettiamo. E proprio questa è l’immagine che offre l’attuale dibattito sull’Europa, sull’euro, e sulle prossime elezioni politiche del 2013, mostrando una Germania molto divisa e incerta. Intanto, l’economia inizia a perdere colpi.

«Il motore affaticato dell’Europa», così titolava di recente l’Economist sulla Germania: la congiuntura resta più positiva di altri paesi europei, ma l’economia sta rallentando, con una crescita del Pil soltanto dello 0,3% nel secondo trimestre dell’anno. Dopo un lungo periodo nel quale il paese ha tenuto alla larga la recessione, ora la crisi sembra stia per arrivare anche a Berlino. Da una parte, il livello della disoccupazione rimane contenuto ma, in un mercato sempre più nervoso, un numero crescente di indici che misurano le aspettative delle imprese e degli economisti segnano un peggioramento. L’istituto Ifo di Monaco registra una pericolosa caduta di fiducia del mondo del business, un numero crescente di imprese teme una riduzione degli ordini e riduce gli investimenti in macchinari. Si sussurra di possibili tagli nell’occupazione alla Siemens, mentre alcune catene della grande distribuzione, da Karlstadt a Schlecker, sono in difficoltà. Secondo l’istituto Destatis, in giugno la produzione industriale si è ridotta dello 0,9% e gli ordini all’industria dell’1,7%, mentre quelli provenienti dalla zona euro sono diminuiti del 5% e quelli di origine interna del 2,1%. Le esportazioni verso i paesi della zona euro rappresentano ora circa il 40% del totale, con un certo ridimensionamento rispetto al passato, ma la Germania è riuscita a sostituire tale calo, grazie anche alla debolezza dell’euro, con la crescita delle vendite verso l’Europa orientale, l’Asia, l’America latina. Ora, con il rallentamento (forse temporaneo) dell’economia anche nei paesi emergenti (i Bric), le cose si potrebbero complicare. I consumi interni reggono ancora e sono aumentati del 2,9% in giugno rispetto a un anno prima, grazie anche al rinnovo di alcuni contratti di lavoro di categoria che ha portato ad aumenti degli stipendi del 4,5%. Anche tale incremento sembra sia peraltro in corso di ridimensionamento. Un rilancio dell’economia tedesca – e di quella di tutto il continente – avrebbe bisogno di una crescita decisa della domanda interna, insieme a un grande piano di investimenti a livello di Unione Europea, ma l’élite di Berlino non sembra all’altezza dei problemi.Iniziamo dagli economisti. In luglio circa 200 tra loro hanno firmato una lettera aperta che definisce sbagliata la politica di Angela Merkel nei riguardi dell’euro; nel documento si avverte l’opinione pubblica dei pericoli di un’unione bancaria e di una socializzazione dei debiti delle banche. Secondo i firmatari, le misure di salvataggio previste in sede di istituzioni europee, porterebbero beneficio soltanto a Wall Street, mentre danneggerebbero tutti gli altri. A questo punto altri 200 economisti hanno redatto una seconda lettera aperta, nella quale si sostiene che l’unione bancaria è essenziale per il salvataggio dell’euro. Sono seguite altre prese di posizione, con le proposte più varie, senza che emerga un consenso su che cosa dovrebbe fare il paese.Veniamo ai politici. La discussione tra (e dentro) i partiti sembra non meno incerta di quella accademica. Angela Merkel e gran parte del governo, consci forse del vicolo cieco in cui si erano cacciati, ora appaiono più possibilisti sul salvataggio dei paesi in difficoltà – sempre peraltro a condizione dell’inasprimento di politiche di austerità – mentre la Csu bavarese e i liberali, nonché la Banca Centrale, che gode di grandissimo prestigio nel paese, appaiono ferocemente contro. La discussione si concentra in questo momento sul funzionamento del Fondo salva stati e sul parallelo ruolo della Bce. Va sottolineato che nelle tre votazioni in parlamento sull’Europa avvenute nel corso di quest’anno, la Merkel ha ottenuto l’avallo alla sua politica solo con il voto determinante dell’opposizione.Apparentemente il partito socialdemocratico (Spd) gioca la carta della solidarietà europea. Ha affidato a Jurgen Habermas e a due altri esperti (un altro filosofo e un economista) la preparazione di contributi per il programma del partito, e tali studiosi sono a favore di un deciso trasferimento di sovranità, che non dimentichi peraltro il principio democratico. Tale cessione di poteri dovrebbe essere sanzionata da un referendum da effettuare in tutti i paesi dell’euro. Per diversi mesi la Spd sembrava molto aperta alle misure di sostegno ai paesi deboli, compresa l’emissione di eurobond, ma di recente le prese di posizione di qualche suo esponente – forse marginale? – sembrano invece collocarsi vicino alle idee degli oltranzisti dell’altro fronte. La scadenza elettorale dell’autunno 2013 inizia a condizionare i comportamenti. Appare difficile immaginare che, nonostante l’attuale grande popolarità personale di Angela Merkel, i risultati delle elezioni possano permettere la formazione di un nuovo governo Cdu-liberali come quello attuale; la soluzione più plausibile sembra una grande coalizione, nella quale la Cdu dovrà venire a patti con i socialdemocratici, mentre un po’ meno probabile appare la vittoria piena di una coalizione di sinistra, viste anche le divisioni esistenti tra i partiti dell’area. In ogni caso, qualcosa nella politica tedesca verso l’euro potrebbe presto cambiare in maniera significativa.

Nelle decisioni politiche europee, la Germania ha per tanto tempo – per comprensibili ragioni di opportunità – mantenuto un basso profilo; ora si è ritrovata all’improvviso con la responsabilità della guida di fatto dell’Europa, senza che le sue élites politiche ed economiche avessero una preparazione adeguata. La memoria corre, a questo proposito, al caso del Giappone che, alla fine degli anni ottanta aveva raggiunto l’obiettivo di ottenere lo stesso livello di sviluppo economico dell’Europa e degli Stati Uniti, obiettivo che inseguiva da più di un secolo; a quel punto il paese si è ritrovato smarrito, non sapendo più che nuovi traguardi porsi. La Germania si trova di fonte ad un bivio; potrebbe decidere di fare come le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale, che imposero al paese riparazioni di guerra alla lunga insostenibili, e che contribuirono a portarla verso l’avventura nazista, oppure potrebbe ispirarsi al secondo dopoguerra, quando gli alleati concessero, con un accordo del 1953, la riduzione del 50% del debito tedesco, contribuendo così in misura rilevante al decollo dell’economia.

da “il manifesto”


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